svariati gruppuscoli rivoluzionari (spesso composti di pochissimi, ma tuttavia proclamatisi "Partito"), decide di partecipare a_ quella che crede essere l'azione-miccia che innescherà l'incendio della prateria peruviana (e latino-americana e poi, certo, mondiale). È noto, ormai, quale sia il pretesto narrativo di Vargas Uosa e come finisca il tentativo insurrezionale avvenuto a Jauja nelle Ande nel 1958 (un anno prima della vittoria castrista a Cuba). Vargas Uosa, ripercorrendo oggi la storia di quel tentativo fallito e la personale vicenda di Mayta, riprende a tessere il filo della ricerca sulla realtà peruviana e latino-americana. Mayta non ha i tratti grandiosi e apocalittici del profeta di Canudos, è anzi un personaggio più patetico che tragico: ma anch'egli incarna un "tipo", che ha avuto un ruolo notevolissimo nell'America Latina (e non solo lì) del nostro secolo. Nel tentativo di conciliare marxismo (nella versione trotzkista) e adesione al popolo, Mayta vorrebbe trovare la chiave dell'uscita dalla miseria e dall'oppressione (ed estende questa liberazione anche agli aspetti più personali: egli infatti è omosessuale e immagina che la nuova società consentirà a chiunque di vivere e di amare come meglio crede). La distanza temporale permette a Vargas Uosa di guardare ad Antonio il Consigliere con più distacco, riservandogli quando serve i toni alti. La contiguità di Mayta (che nel libro immagina essergli stato, da ragazzo, compagno di scuola) gli impedisce invece di farlo uscire da un alone ridicolo e patetico, insomma di "storicizzarlo" e di vedere lo stesso lato "epico" che tentativi come il suo (e che cos'era quello di Che Guevara in Bolivia?) - alla lunga - forse riveleranno. Mayta ci si presenta come un poveraccio, precocemente invecchiato, passato dall'adolescenziale fede cattolica a nuove illusioni, ma con la pretesa di possedere addirittura la "scienza" della storia (il materialismo, il marxismo) e il segreto del nuovo ordine (la prassi rivoluzionaria: cioè i volantinaggi, i giornali che nessun operaio leggerà mai - come la sua "Voz obrera" -, le interminabili discussioni tra militanti, gli improbabili scioperi organizzati all'insaputa della classe operaia, ecc.). Si avverte, in questo ritratto, l'opposizione di Vargas Uosa verso una linea di ricerca politica che ha rappresentato a lungo, in America Latina, la sola alternativa alle dittature e al sottosviluppo asservito. "Credo che il marxismo nel Terzo Mondo sia diventato la religione del nostro tempo" ha dichiarato in una recente intervista, aggiungendo che questa "religione" (alla quale, non a caso, passano con facilità settori cattolici) condivide con la tradizione golpista e militarista "la visione dell'azione eroica individuale che trasforma la storia (... ), l'idea che la forza dà diritti, che l'uomo che conquista il potere mediante l'azione eroica, la pistola, il rischio, ha diritto di fare uso in modo assoluto di questo potere". C'è un episodio, in Storia di Mayta, che rivela il rifiuto di Vargas Uosa verso questa mitizzazione del potere e della lotta anche "eroica" per conquistarlo. Il narratore entra al Museo dell'Inquisizione a Lima e passa in rassegna le testimonianze di quell'epoca che gli suggeriscono, per istinto, un collegamento con l'oscuro militante rivoluzionario. Quale filo segreto, si chiede, li unisce? Certo, l'Inquisizione avrebbe perseguitato Mayta per la sua "diversità" (ma i suoi I disegni che illustrano questa sezione sono di Nino Aimone. DISCUSSIONE/BETTIN compagni non lo trattano certo bene, quando capiscono che "è frocio") e per la sua contestazione. Ma c'è un altro filo, più difficile da mostrare (e infatti Vargas Uosa vi allude soltanto), ed è quello della violenza "ingrediente essenziale, invariabile, della storia di questo paese, fin dai tempi più remoti. Quella morale e quella fisica, quella nata dal fanatismo e dall'intransigenza, dall'ideologia, dalla corruzione e dalla stupidaggine che da noi hanno sempre accompagnato il potere, e quella violenza sudicia, minuta, canagliesca, vendicativa, interessata, parassita dell'altra". Si capisce che l'autore considera Mayta, pur con tutta la sua generosità, uno che è parte di questa tradizione di violenza. Parte perdente, ma che avrebbe anche potuto vincere: e, allora, si sarebbe visto che neppure lui avrebbe posto fine all'intolleranza e alla discordia. "La grande rivoluzione che bisogna fare in America Latina è la rivoluzione della legalità, la rivoluzione contro le verità assolute, a favore delle verità relative, che è l'unica cosa che ci può indurre ad accettare, da un punto di vista teorico e morale, la necessità del compromesso, del consenso, della coesistenza nella diversità" dichiara, interpellato, Vargas Uosa. Lo strano profeta di Canudos, intriso di verità assolute da rivelare e il rivoluzionario di Lima, stanco ma tenace, si assomigliano, nella tensione comune a fondare una nuova comunità umana. Nei sogni di entrambi, nei loro linguaggi (biblico il primo, marxista il secondo) si sprecano le promesse di liberazione e di tolleranza. Ma il loro artefice, l'autore ("io, che in questo caso sono la storia", scrive Vargas Uosa) non gli crede e dubita che i loro tentativi possano produrre anche di peggio di ciò che, già ora, appare insopportabile. Aver loro dedicato le opere probabilmente più mature e impegnate, significa per Vargas Uosa riconoscere il ruolo cruciale esercitato nella storia peruviana e latinoamericana dalle figure rappresentate nei personaggi di Antonio il Consigliere e di Mayta e dalle correnti a cui appartengono. Significa porre il problema della "vera grande rivoluzione da fare" tenendo conto delle stratificazioni culturali e politiche depositatesi - e spesso vitali ancora - nel subcontinente. Senza, tuttavia, rinunciare a indicarne i limiti, i terribili rischi; insomma, senza rinunciare a "far politica" scrivendo romanzi (ecco la risposta a due domande che vengono poste al narratore in Storia di Mayta: "Come può starsene a scrivere romanzi in mezzo a quest'incubo?", p. 136, e 11
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