Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

LAMARGINALIATTÀTIVDAEIFILM-MAKERS Gianni Volpi Torino, Milano, Roma, il Veneto, il Sud; televisioni di stato o private, nazionali o confinanti, università, scuole di cinema, mini-"factory", committenze pubbliche: il cinema indipendente italiano è nato sotto il segno della dispersione. Altri direbbe del decentramento o parlerebbe di cinema espanso. È, invece, il risultato di una necessità che si è fatta coscienza (della realtà di un contesto, dei modi possibili di agire in esso). Sembra definirsi a partire da una serie di assenze. Prima assenza, quella di una vera industria. Industria significa possibilità di realizzare e di esprimersi, efficienza e continuità, ma pure coraggio imprenditoriale, ricambio di quadri, apertura alle forze vive, vicine ai gusti del pubblico e ai loro mutamenti. li sistema produttivo italiano era ed è invece fondato sulla precarietà, sull'assistenzialismo, sulla chiusura al nuovo e diverso: sulla crisi come condizione permanente. Cinecittà è stata, nell'ultimo decennio, una specie di "boomtown", di città-fungo dell'effimero, una specie di "ghosttown", di città fantasma abbandonata nella corsa alle nuove realtà industriali e mediologiche. Dopo tante generazioni di "bruciati verdi", che lo stesso cinema italiano (quello "arrivato") ha più volte raccontato (gli "sconfitti" come riflesso amaro della propria condizione e, alla fine, giustificazione dei propri "tradimenti"), i giovani film-makers sembrano rifiutare la strada consueta delle attese kafkiane, delle anticamere del sottopotere e del sottogoverno romano, che non approda a nulla o, al più, a qualcosa che non è ciò che si voleva fare. È in piena decadenza il mito della Roma dei cappuccini e dei progetti, se non per un sottobosco di marginali. Si scelgono altre strade non più facili, ma più concrete. Autonome. Locali. Televisive. La dissoluzione del mito unitario del cinema romano (in senso geografico, ma pure come mentalità) esprime se non altro una volontà di non-resa all'esistente, al cinema com'è. Su come deve essere, poi, ogni film è un caso a sé. Difficile tentarne una tipologia. Più utile sarebbe analizzare, almeno nei modi di produzione, le singole esperienze. Tutto sommato, ci sembrano di tre tipi: quelle cooperative, che oggi tentano di darsi durata e organicità (èsempio, la "factory" su cui lavora Segre); quelle variamente legate alla Terza Rete della RAI e alle sue sedi locali (essenziale, ad esempio, è il ruolo di capistruttura come Dapino, a Torino); quelle che si avvalgono dell'aiuto finanziario di enti locali, di scuole di cinema, di rassegne specializzate, tipo il Film-Maker di Milano che assegna premi al soggetto, non al film fatto. Sono tutte strade provvisorie (almeno le prime due, potrebbero, però, consolidarsi), che tuttavia consentono in una certa misura di essere se stessi, che per ora garantiscorio che a prevalere è l'elemento ricerca, l'elemento espressione, l'elemento indagine. Impongono in ogni caso una salutare necessità di fare i conti con i problemi pratici del fare cinema, di controllo del processo creativo nella sua globalità; impongono di calare le proprie scelte narrative e stilistiche nei concreti modi di produzione, fuori da ogni mito idealisticodi Autore. Del resto, già un grande poeta francese diceva che "l'arte vive di costrizioni", lo scontro con le difficoltà imposte a ogni livello dal proprio contesto è un atto vitale, un momento essenziale del processo creativo: un limite produttivo, che produce in positivo. Semmai i pericoli sono più sottili, più interni ai filmmakers stessi, vengono da altre tentazioni: quello di una gestione (non direi, concezione cosciente) della tecnica come fatto autonomo, come valore in sé, un "saper girare" che non è più soltanto una necessaria premessa, ma che prevale completamente, cancella la classica questione su "che cosa filmare"; i miti modaioli (ambienti, comportamenti, look. ritmi giovanili, quali sono imposti dal consumo, pubblicitario e musicale soprattutto, e "generi" relativi: degrado metropolitano, deriva esistenziale magari in forma di azione violenta e di gesto vitalistico, incubi fantascientifici, uso snobistico dei comics e dei prodotti della cultura di massa ... ) cui quasi sempre si accompagna la fascinazione per le nuove tecnologie, la fiducia acritica e fideistica per le "magnifiche sorti e progressive" che esse schiudono, anzi l'entusiasmo provinciale, da colonizzati (che è l'altra faccia della stessa medaglia della chiusura aprioristica), non tanto interessato a discutere, analizzare, sperimentare le potenzialità delle nuove realtà tecnologiche e mediologiche, e invece succube della loro versione americana, dell'uso e delle forme che di esse vengono diffuse dai mass-media d'oltreoceano (e in questo hanno non piccole responsabilità certa critica di sinistra, certo pensiero "moderno" e "avanzato"); infine, tutta una gamma di convenzioni televisive "di successo", un gusto medio corrente, anche nelle sue varianti "anticonformiste". Laddove, ciò che dovrebbe essere più importante per un giovane cineasta (anche in termini promozionali, di carriera) è proprio la differenza. Alla fine, in sostanza, il problema torna a essere quanto si tratti di una "indipendenza" scelta e quanto subita. Un altro dato sociologico gioca per ora a favore dell'area indipendente: che essa produce professionalità, ma non assicura una professione. I giovani film-makers si guadagnano perlopiù da vivere con attività legate ai media, pubblicità, servizi e programmi televisivi, realizzano documentari per una committenza privata o pubblica (soprattutto, gli enti locali) che nei casi più sperimentali sono vere e proprie videoriviste, più raramente lavorano in gruppi di ricerca teatrale; cioè, lavorano sull'immagine, sperimentano, si misurano con i concreti problemi di tecnica e realizzazione, tipici di un artigianato su commissione ma con precisi margini creativi che resta una buona scuola. È un affare che evita loro l'assillo della ricerca ansiosa di un produttore, di proporre qualcosa che tira sul mercato o di realizzare l'Opera Assoluta, da grande Poeta o Artista. Le loro opere le realizzano quando se ne presenta l'occasione finanziaria e hanno qualcosa da dire. É una marginalità un po' da provincia virtuosa e pragmatica, ben diversa da quella del sottobosco bohemien e artistoide romano. Può darsi che sia vissuta dai più come una condizione provvisoria (e la provvisorietà ap-

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