Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

mettere ordine nel nostro disordine! I miei viaggiatori foto• grafavano, prendevano appunti, raccoglievano mucchietti di trucioli che deponevano delicatamente in una borsa. Howard Carter non avrebbe agito con maggiore c1rcospez1one, mentre il deposito cosi pudicamente e nordicamente soppesato era il già il reperto "b", ovvero la sussunzione scientifica del truciolo, la forma asiomatica e funebre di ciò che una volta fu l'appendice viva di un quadro. Dall'ombra venivan fuori natiche, seni soavissimi di fanciulle altere, cipigliose e stregate, piccoli pubi frastagliati e odorosi di biacca. La vostra umile guida cairota boccheggiava, con gli occhi che dardeggiavano. "Buono?" "Buono. Buonissimo, da leccarsi i baffi!" Mi ricordo un'opera srotolata e messa sul pavimento con delicatezza. Ne soffiammo via la polvere e accendemmo le torce. Tre medici frugavano le vesti e le carni di una dama atteggiata in una dolcissima agonia. Sullo sfondo il Vesuvio sfumacchiava. Uno dei medici, quello più vicino all'intimità della paziente, aveva un occhialino che raccoglieva un riverbero scarlatto della lava. In terra una lucertola lambiva col becco il piedino impubere della malata. Che altro? Ah! Anche i viaggiatori che avevo accompagnato in quell'anfratto erano tre. Essi erano chinati a osservare i medici ed io ero chinato a scrutare l'agonia della fanciulla. Veramente un oel quadro, sotto il disordine di Napoli, sollo l'allegra confusione dei venditori di frittelle e dei risciò' E noi im~ersi in quell'epoca abissale, così indifferente allo spirito, cos, preoccupata della chimica dei corpi, del flusso e del deflusso degli umori, delle sostanze volatili, fino al sortilegio del sangue che zampilla da vasi ormai atrofizzati! Un pensiero tirava l'altro. Laggiù Partenope era stata un enorme laborato• rio dove dis_umanissimi filosofi-ingegneri avevano perfino d1menucato Il freddo dei nostri lividissimi febbrai per tessere la trama arruffata del sapere, tra derisioni e incomprensioni. Essi avevano rinunciato alla luce, alla superficie e alla coscienza, per mirare direttamente al centro. Erano i "concentrici", dei ripiegati su se stessi, costretti a passare per degli "eccemri_ci", per degli onnivori ricercatori del nulla, per degli alchem1c1 strampalati. Fanciulle morbide e boschive certo ma anche architetture da osservare, quantificare, tradurre i~ numeri magici. Comparare la donna alla scimmia, la scimmia alla trota, la trota al verme. Quei quadri dicevano più di quanto l_asuperficie iridescente sembrava mostrare, più del nommahsmo dei ruoli, degli insetti incastonati, dei capezzoli d1ss_imulati._Oh, sì, quei quadri erano dei criuogrammi, semphf1cavano 11reale ma complicavano la mente, raffiguravano e allo stesso tempo intricavano, parlavano al cervello prima di abbagliare la vista. E poi non c'erano solo tele da srotolare o b_ustida spol_verare. Come nella foresta il sottobosco è più ncco e multiforme degli alberi svettanti o delle magnolie carnose, in quelle cantine ventose occorreva ritornare a ciò che ad una_pr_imaindagine era sfuggito. Cos'era quel dentino d1 bertuccia infisso nello spacco tra due riggiole? E quella macula di piombo in 1111 angolo del primo scalino? Cosi seguivo i miei petulanti archeologhi pensando a que• sti gabinetti del sapere sopra umidissimi canyons di pietra viva, sopra altalene di dubbi. Erano giusto lì, negli interiors di SlORIE/lAMBIASE Neapoli, dietro gli stabuli delle scuderie o dietro i lavatoi delle cucine, dove la città aveva saputo a stento arginare la prepotenza del sisma, e all'offensiva del tempo opponeva spericolac ti barbacani o travi tarlate che gemono sotto il peso, dove i benpensanti non possono accedere, perché folli fantasmi inia· barrati o gigantesse assatanate erano pronti a ghermirli. Pronti a essere blanditi, questi dei infelici, per la loro stravaganza, eppure intimamente spregiati, perché la loro scienza non sembra partorire altro che carrozze acquatiche o pipette capricciose per aspirare le feci reali! I musei, le cripte, i laticlavi di Partenope erano nei luoghi più negletti e oscuri della città. Si passava dinanzi ad antemurali di sporcizia, ci si esponeva alla contemplazione di visi enigmatici che ci guardavano da lontananze medio-orientali, ma fissavano vogliosi la nikon che ballonzolava sul ventre o Io spilloncino con la testa di medusa su di uno straccetto dei grandi magazzini. I tesori erano sempre nella polvere e nello sterco. Ricchezze inaudite sparivano dietro portoncini anodizzati, e bastava superare un angolo ingombro di fustini di detersivo o la saracinesca proterva di un garage, per trovarsi improvvisamente dinanzi alla cappella a lungo cercata o alla colonna mozzafiato di un tempio votivo. A volte la ricerca era più lunga e più dolorosa. Se ad esempio bisognava entrare nella chiesa di S. Aniello a Caponapoli e la detta cappella era chiusa da cinquant'anni, la vostra guida doveva elargire tutte le sue qualità levantine per procurarsi il mezzo per accedere al tesoro negletto. Un altarino di ossidiana e un cilicio del santo erano lì, in tacita anesa del proprio disvelamento. Come andarci incontro? Come lasciare che quel legno dipinto citato perfino in una nota del Cavalcaselle restasse per altri dieci lustri obliato, preda dei tarli e delle fuliggini? A nulla valeva invocare i piedi gonfi e il tempo malandrino per cui una guida è costretta eternamente a fuggire. Il viaggiatore non poteva aspettare, perbacco; i sensuosi amatori del barocco erano col fiato sospeso in tutto il mondo; la Reale Accademia delle Arti di Stoccolma attendeva impaziente la notizia di quell'annuncio sidereo, coronamento di una indefessa carriera al servizio dell'idea del Bello. Poiché dunque la porta della chiesa era ostinatamente chiusa, bisognava rivolgersi al negoziante di elettrodomestici lì a fianco. L'onest'uomo rinviava a un cugi• no lavorante in una tipografia nascosta in un cortiletto della Pignasecca. Il tipografo, smemorato nonché contaminato da una saturnite galoppante che gli inficiava i ricordi più belli di gioventù, credeva di ricordare che proprio l'altrieri era morto d'asma l'ultimo guardiano della cappella. Così mi precipitavo 111 casa del defunto col cuore in gola, giusto in tempo per vedere i congiunti rigovernare la casa e spazzare via gli ultimi petali rimasti sul pianerottolo e nelle scale. "La chiave? Ah, sì, la chiave!" E si dipartiva da me un'altra tragica catena d'eventi, fino a quando, rivoltando negli armadi e nei canterani, non emergeva da quei relitti di naufrago il fantasma gotico in cima a tutti i nostri pensieri. Ma intanto già il vento di tramontana si era insinuato nelle strade e l'apertura della cripta avveniva sotto il cigolio di una lamiera contorta del tetto, dinanzi ai fuochi dei venditori di ventresca. 87

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