Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

62 DISCUSSIONE/BRIOSCHI termine assai più generico come "regola", che cosa sia un calcolo. Calcolare significa operare con algoritmi: e un algoritmo è una procedura finita e meccanica di decisione (in quanto tale affidabile, appunto, a un calcolatore). Una teoria inoltre, per essere un calcolo, deve essere consistente e completa (è il caso, ad esempio, del calcolo dei predicati). Ora, gli algoritmi sono naturalmente una gran bella cosa, i calcolatori ci risparmiano un sacco di fatica, e se una teoria può assumere la forma di un calcolo ci offre il vantaggio di garantire la correttezza delle conclusioni a cui perveniamo. Perciò è sempre bene, là dove ci riesce, esprimere in questa forma qualsiasi conoscenza o operazione intuitiva. Ma credere che qualcosa sia conoscibile se e solo se è calcolabile, e che viceversa l'unica conoscenza valida sia la conoscenza che può essere espressa in forma di calcolo o teoria formalizzata, credere questo è, ripeto, sbagliato e dannoso. È sbagliato, in primo luogo, perché le proprietà della descrizione non devono essere necessariamente anche proprietà della cosa: una descrizione semplice del mondo non presuppone che il mondo sia semplice, nòn più di quanto una descrizione in inglese del mondo presupponga che il mondo sia scritto in inglese. Questa stretta identificazione appare, insomma, tributaria di una concezione raffigurativa del linguaggio che la semiotica stessa ha contribuito a confutare. In secondo luogo, pretendere che solo se e per quel tanto che la comunicazione è un calcolo potremo averne conoscenza scientifica significa pretendere più di quanto la matematica pretendere dai numeri: per tacere dei teoremi di incompletezza, basti dire che da millenni la matematica si è assuefatta a convivere con quantità irrazionali come ,r; e ci sono parti della geometria, di tipo qualitativo come la topologia, che non sono affatto un calcolo. In terzo luogo,_come ci ricorda Popper, "nulla può essere giustificato o provato fuori che nella matematica o nella logica. La richiesta di dimostrazioni razionali nella scienza testimonia l'incapacità di conservare la distinzione fra l'ampio dominio della razionalità e il ristretto campo della certezza razionale". Ciò non toglie che la descrizione della comunicazione come calcolo non abbia avuto un'utilità euristica. Essa ci ha consentito, senza dubbio, di scoprire e trattare con precisione e rigore alcuni aspetti rilevanti del fenomeno. Dannosa però è la credenza epistemologica che ha sostenuto una siffatta ricerca. Restrizioni come queste finiscono per consegnare al dominio dell'ineffabile e dell'irrazionale tutto ciò che sfugge alle procedure di calcolo: con il bel risultato di farne dono a chi non ha altri strumenti per esplorarlo se non quelli offerti da qualche mistica di moda. Lungi dal costituire un'obiezione all'ermeneutica selvaggia di cui sopra si diceva, questo ideale gnoseologico non fa che confermarne gli assunti basilari: da dove mai il "poststrutturalismo" ha preso le mosse, se non proprio dalla concezione secondo cui tutto ciò che non è esprimibile in linguaggio formale è "privo di senso", "metafisico", estraneo alla "ragione occidentale"? Diverso c'è solo la volontà di immergersi appunto in quell'ombra che una luce troppo fissa fatalmente ha creato, nonché la decisione di adottare modi corrispondenti di linguaggio. Se non cogliamo questo nesso, sotteso a una parte non secondaria delle vicende culturali dei nostri anni, difficilmente saremo in grado di capirne qualcosa. nome che sia, la fedeltà a un modello di calcolo formale a.I ha finito per provocare una severa selezione all'interno stesso dell'eredità ricevuta dai padri fondatori. Lo stesso ritorno a Peirce sembra contrassegnato, ancor oggi, da una logica riduttiva: non credo sia solo un caso se, nella versione di Eco, la "semiosi illimitata" prescinde dalla cornice pragmatista che originariamente la inquadrava; né credo sia questo il modo migliore per evitare di assumere impegni metafisici sgraditi (a favore, nella fattispecie, del platonismo). Il pragmatismo di Peirce, o pragmaticismo come egli preferiva, può benissimo essere riformulato in un linguaggio compatibile con opzioni filosofiche diverse e, se vogliamo, meno compromettenti. Ma in ogni caso non ci si può accostare alla sua semiotica solp per confiscarne gli aspetti che tornano comodi. Tale selezione non ha mancato di operare, d'altro canto, nell'ambito che soprattutto c'interessa, quello della teoria letteraria. La definizione della letteratura in termini di "letterarietà", ossia di proprietà linguistiche e semiotiche che distinguerebbero i testi letterari dai testi non letterari, ha quasi sempre messo in ombra il fatto decisivo: il dialogo tra l'autore e il lettore si oggettiva bensì nelle proprietà formali dell'opera, ma proprio ciò conferisce alla presenza di questi soggetti un valore fondativo ed esplicativo che non può essere espunto dalla teoria. Un esempio può forse chiarire la cosa. Gli anagrammi che Saussure ha per lunghi anni cercato e analizzato nei testi della letteratura arcaica indoeuropea rimandano a un principio di manipolazione ludica del linguaggio o a una concezione magico-sacrale della poesia? Domandarsi "come funziona" un testo è importante. La risposta a questo interrogativo non può essere però fatta surrettiziamente passare come risposta a un altro interrogativo: quale funzione ha il testo nella comunità che lo legge e lo tramanda. Con un siffatto escamotage noi contrabbandiamo, dietro il nostro apparato descrittivo, un'estetica che, di per sé, vale quanto un'altra: l'estetica secondo cui l'arte ha il proprio scopo in se stessa, e l'opera letteraria è un oggetto intransitivo che non comunica altro che se stesso. Anche ammettendo l'esistenza (tutta da dimostrare, in verità) di costanti formali che caratte·- rizzerebbero i testi letterari, nulla ci autorizza tuttavia a desumerne alcuna conclusione in merito alla teoria della letteratura. L'accertamento di tale esistenza non è ancora una spiegazione, e qualsiasi spiegazione dovrà cercare conferme indipendenti. Un destino analogo agli anagrammi di Saussure, trasformati in un'ennesima riprova della "funzione poetica" di Jakobson, ha avuto la morfologia della fiaba di Propp, interamente estrapolata dal suo contesto antropologico: le radici storiche dei racconti di fate hanno incontrato in questi anni

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