Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

Questo tavolo, Umberto Eco o Franco Brioschi non sono esemplificati, ma sono questo tavolo, Umberto Eco o Franco Brioschi, né alcun altro "oggetto" o predicato può esemplificarli. Forse la "semiosfera" si rivela, a questo punto, solo una descrizione particolarmente intricata per giungere a quanto sapevamo dal tempo di Aristotele: la parola "cane" non morde, a differenza del cane (per quanto lo si voglia considerare come un segno). Quel che è certo, è che la "semiosi illimitata" ha, per nostra fortuna o disgrazia, un limite: il buon senso. . Posso assicurare che non c'è nessuna ironia né polemica in queste conclusioni, tutt'altro. La "semiotica vestita di nuovo" si trova a confrontarsi con genuini problemi filosofici, facilmente riconoscibili anche dietro le argomentazioni un po' astruse sopra svolte. Sono problemi a loro modo classici (il rapporto tra estensione e intensione, tra pragmatica e semantica, tra mente e linguaggio), che da questioni apparentemente frivole come lo statuto di quei curiosi "oggetti" di discorso quali, ad esempio, "l'attuale re di Francia" o "Pegaso", ci conqucono a misurarci con cruciali decisioni filosofiche, quali la scelta tra platonismo o nominalismo, o altre analoghe e similmente confortevoli. Dico solo che, su questo terreno, mi pare ragionevole supporre che la semiotica di ascendenza strutturalista ha almeno tanto da imparare quanto da insegnare: da Frege a Husserl, da Russell a Carnap, da Tarski a Wittgenstein, da Quine a Goodman, da Putnam a Montague, da Kripke a Hintikka, da Searle a Bonomi, la tradizione (se proprio vogliamo così chiamarla) della semiotica filosofica presenta in ogni caso una fisionomia molto peculiare, che non consente sovrapposizioni dirette o lineari. Per il momento, la collaborazione tra logica e linguistica è appena cominciata (a parte i ragguardevoli precedenti di Hjelmslev e di Chomsky, poco seguiti però fuori dalle scuole rispettive),e non sappiamo dove andrà a parare. Né sappiamo a quali esiti può portare l'interazione fra punti di vista e stili di ricerca ancora assai diversi tra di loro. Certo è che, nel frattempo, il semplice ribattezzare come "semiotiche" teorie che hanno origine del tutto indipendente non sembra, di per sé, rappresentare un così grande passo avanti. Al contrario, la diversità di esigenze e preoccupazioni rende semmai più manifesto il carattere problematico di certe opzioni metodologiche per lungo tempo considerate paradigmatiche. Una volta "depurata" la semantica da un concetto imbarazzante come quello di estensione, ad esempio, non possiamo evitare poi di ritrovarcelo davanti in sede sintattica (la relazione type-token è tipicamente una relazione estensionale). Sempre meno la dimensione pragmatica appare concepibile come una dimensione puramente esterna al fatto linguistico o semiotico "in quanto tale". Né possiamo del tutto ignorare, infine, che il rapporto mente-linguaggio è per forza di cose chiamato in causa, anche se non necessariamente in termini psicologici, da nozioni quali "riferimento" o "inferenza" (del resto, la depsicologizzazione del linguaggio da parte, supponiamo, di Frege o Husserl, a cui pure spesso si fa appello, era strettamente connessa a temi ben poco "immaDISCUSSIONE/BRIOSCHI nenti", come la natura oggettiva del pensiero o il soggetto trascendentale). Quest'ultimo punto in particolare si presta qui a qualche commento, visto che anche Eco bensì lo solleva, a proposito dei codici di programmazione che prevedono selezioni contestuali, ma proprio allo scopo di negarne la pertinenza: "non si obietti che la macchina non fa inferenze: non siamo interessati alla psicologia della macchina ma alla semiotica del codice (che tra )'latro potrebbe essere "parlato" da esseri umani). L'affermazione, per quanto corretta nel caso specifico, resta nondimeno curiosa. L'intera discussione di Eco sulla nozione di codice è infatti tesa piuttosto a indebolire che non a rafforzare i vincoli funzionali che dovrebbero presiedere a una rappresentazione realistica (empiricamente adeguata) di una lingua naturale. Egli ribadisce anzi, più volte, il fondamento congetturale di ogni operazione semiotiea: "ecco che già al livello "piatto" della più piatta delle cifre riconoscimento di equivalenza e scommessa inferenziale iniziano a mescolarsi. Non si separeranno più". È questo fondamento a far slittare la nozione di codice in quella di enciclopedia, con la conseguente rinuncia al "modello (impoverito, formalizzato e fallace) della necessità" a favore di un modello "fallibilistico". Sotto questo profilo, la sua indagine attuale rovescia apertamente la direzione teorica seguita in passato dalle teorie strutturali: "Il nostro problema non era didimostrare(come forse si è fatto sin troppo negli ultimi tempi) che una lingua è come un codice: era piuttosto di suggerire che un codice, nel senso più ristretto del termine, esibisce già alcune proprietà che sono tipiche di una lingua". E tuttavia Eco conserva, della nozione di codice, un elemento decisivo. Giustamente egli rievoca l'esigenza a cui essa in origine rispondeva: "La nozione di codice è insieme condizione preliminare e conseguenza immediata di un progetto istitutivo delle scienze umane. Utopia le scienze umane, sarà utopia la ricerca dei codici: la sorte dei due concetti è intimamente legata, il codice è lo strumento categoriale di quel compito scientifico che sono le scienze umane. Sconfitto il codice, dell'umano non si darà più scienza, e sarà il ritorno alle filosofie dello Spirito creatore". Anch'io sono persuaso che si debba rimanere fedeli all'esigenza di razionalità che costituisce il lascito irrinunciabile dello strutturalismo e della se~iologia (ma non solo di questi, è bene non dimenticarlo) agli studia l111mani1a1is: non credo invece che sia un bene identificare tale esigenza con la condizione posta da Eco: "tutto ciò che è comunicazione (natura o cultura che sia) è soggetto a regola e a calcolo, equindi è analizzabile e conoscibile (...) alla radice della comunicazione vi è un calcolo, e quindi il processo di comunicazione può essere oggetto di scienza (onde conoscerlo) e di tecnica (onde dominarlo)". Proprio questo quindi non solo circoscrive in modo troppo restrittivo il terreno dell'indagine legittima (il che crea grossi problemi già quando ci occupiamo di comunicazione, non dico d'altro), ma può avere ed ha avuto effetti nefasti, nonostante tutte le buone intenzioni. Certamente Eco non ignora, anche se lo affianca a un 61

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