Come si può, infatti, prendere per buona questa irrelata ontologia del segno? I segni non sono per nulla dati davanti a noi. Siamo noi a costruirli incessantemente, ogni volta che passiamo dal livello di realtà in cui ciò che abbiamo di fronte è un suono o una traccia d'inchiostro al livello di realtà in cui ciò che abbiamo di fronte diventa un fonema o una lettera dell'alfabeto, ogni volta che assegniamo un token a un type, ogni volta che riportiamo un messaggio a un codice. A rigore, potremmo spingerci persino a rovesciare lo pseudoparadosso: non solo non è vero che il linguaggio parla noi, ma neppure che il linguaggio parla a noi. Anche quando ci illudiamo di ascoltare o di leggere siamo sempre noi che stiamo parlando. Risparmio tutte le altre possibili variazioni sul tema, le obiezioni e le controobiezioni che a questo punto aprirebbero una sequenza davvero "illimitata". Il fatto è che abbiamo messo in moto un circolo vizioso, e )a sequenza è indecidibile esattamente come la ben nota serie aritmetica 1-1+ 1-1+ 1-1... Dipende da come la "punteggiamo": se la interpretiamo come equivalente a (1-1 )+( 1-1)+( 1-1)... avremo un risultato; se la interpreli;imo come equivalente a I-{1-1)-( 1-1)-(I-I) ... avremo un altro risultato. O se si preferisce la questione è mal posta, né è probabile che ci conduca più lontano di quella se sia nato prima l'uovo o la gallina. Fuori del contesto psicanalitico da cui è estrapolato (e su cui non mi pronuncio), lo pseudoparadosso va semplicemente ridotto alla verità, del tutto ovvia, che contiene: noi costruiamo il linguaggio, cosi come costruiamo il mondo, ma non inventiamo il linguaggio, non più di quanto inventiamo il mondo. Il linguaggio è un'istituzione, una tradizione a cui apparteniamo e all'interno della quale costruiamo noi stessi (il che, ancora una volta, non vuol dire che ci inventiamo). La dimensione ontologica è però un'altra: è la dimensione in cui siamo chiamati a pensare e adire, cioè ad assumerci la responsabilità di usare il linguaggio. Il "gioco linguistico" è parte di un più ampio "gioco di coordinazione", con gli altri, con la realtà, e con il linguaggio stesso, all'interno di una complessiva "forma di vita". Per quanto concerne l'argomento che stiamo discutendo, il vero problema della filosofia del linguaggio (se lo sia anche della semiotica al momento non risulta) è questo. Comunque vogliamo descriverla, la "semiosfera" è immersa dentro un mondo di azioni. che essa modella ma da cui è al tempo stesso modellata. n porgendosi perplesso sull'orlo dell'abisso, anche il se- 1:.1 miologo non può fare a meno di rìlktt\!rl.' che la deriva dei segni offre, nel migliore dei casi, solo un'immagine parziale dei fatti: "il processo di risegmentazione", scrive Eco (tutti i riferimenti che seguono rinviano a Semiotica e filosofia del li11guaggio, Torino, Einaudi, 1984), "deve pur essere attuato da qualcuno, e sorge il sospetto che sia pur sempre una collettività di soggetti". "Siamo forse, da qualche parte, la pulsione profonda che produce lasemiosi": più in là di questo sospetto, tuttavia, egli non ritiene che il semiologo possa spingersi. Anche lui nutre qualche diffidenza nei confronti di una certa ermeneutica selvaggia, secondo cui il fatto che sia il DISCUSSIONE/BRIOSCNI linguaggio a parlare noi, e non noi a parlare il linguaggio, ci autorizza a proferire qualunque vaniloquio, liberi, in assenza di un responsabile purchessia, da ogni criterio di verificabilità intersoggettiva: "l'enfasi e l'entusiasmo (diciamo pure la fretta) con-cui il post-strutturalismo ha cercato di far giustizia dei codici e dei loro sistemi, sostituendo alla regola il vortice, la béance. la differenza pura, la deriva, la possibilità di una decostruzione sottratta ad ogni controllo, non va salutata con troppo entusiasmo. Non costituisce un passo avanti, bensi un ritorno all'orgia dell'ineffabilità". Ma diverso è il suo terreno elettivo e, come vedremo, diversa di conseguenza la trincea dietro la quale si attesta. Ciò non toglie che egli proceda a una revisione abbastanza profonda proprio di quell'eredità strutturalista da cui la semiotica aveva preso le mosse negli anni '60. Si pensi, ad esempio. alla nozione saussuriana di segno, con le innumere~ voli correzioni, precisazioni, riformulazioni che ne hanno accompagnato la travagliata storia. Il segno era per Saussure "un'entità psichica a due facce", formata dalla combinazione di un'"immagine acustica" (significante) e di un "concetto" (significato): questa unità, questa associazione indissolubile di significante e significato aveva il merito di liquidare definitivamente la concezione ingenua della lingua come nomenclatura; aveva però anche il torto di costituirsi come il risultato di un processo mentale, che chiamava in causa i soggetti empirici (in quanto, s'intende, membri di una comunità). Dal momento che ciò non sembrava compatibile con gli standards di un più avanzato rigore scientifico, con tutto il rispetto dovuto a Saussure, generazioni di linguisti e di semiologi si sono preoccupati di depurare il segno da questi fastidiosi residui psicologistici, di "obiettivare" il nesso tra significante e significato riassorbendolo nelle relazioni interne del sistema. Il guaio è che cosi si giungeva inevitabilmente a un 'idea di segno affatto aporetica e controintuitiva: ossia l'idea di un segno che non sta per né rinvia a qualcosa, bensì letteralmente contiene dentro di sé quel qualcosa. Lo stesso Eco, sulla scorta di Hjelmslev,aveva proposto di dissolvere la nozione di segno in quella di "funzione segnica", eliminando così l'aporia ma non il carattere controintuitivo dell'idea. Il fatto è che noi abbiamo di fronte certi oggetti, e da questi oggetti passiamo a qualcosa d'altro, applicando loro certe funzioni: è tale processo che permette a quegli oggetti sui generis che sono i simboli di operare in quanto simboli. E appunto un'idea di processo è tra i contenuti impliciti della nozione di "inferenza" che ora Eco pone al centro del suo discorso. L'inferenza ha la struttura logica dell'implicazione materiale ("se ... allora"), ed è una funzione che associa a un simbolo qualsiasi (indice, indizio, segno figurativo o linguistico, ecc.) un "interpretante", ossia (si ricordi il principio della "semiosi illimitata") un altro simbolo che ne costituisce il significato. La struttura "se ... allora" rappresenta l'elemento comune che unifica le nostre varie risposte ai vari tipi di simboli o segni: se ciò che vedo è un'orma così e così, allora posso associarle il predicato "orma di coniglio", e in questo senso posso dire che l'orma significa "coniglio"; se vedo in un 59
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