Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

58 DISCUSSIONE/BRIOSCNI verificati, né eventualmente falsificati, se non da altri predicati (o segni o etichette). E chiedersi perché i predicati si applicano come si applicano agli oggetti a cui si applicano è come chiedersi perché diciamo "acqua" anziché "eau", "Wasser" o "water". Non esiste altra risposta, se non che queste appunto sono le regole del gioco linguistico che stiamo giocando. Una rappresentazione siffatta è per molti versi talmente lontana dal senso comune da richiedere un certo sforzo per abituarcisi. Pure, ogni volta che per uscire dal cerchio tentiamo di afferrare la cosa, potremo solo constatare che da un segno siamo passati a qualche altro segno: saremo discesi magari, attraverso le strutture del nostro apparato neurologico, giù giù sino ai simboli elementari (si fa per dire) che l'evoluzione della specie ha incorporato nel nostro codice genetico, ma sempre con simboli avremo a che fare. E se anche ricorressimo a meri gesti di ostensione, il problema non cesserebbe di ripresentarsi, ancora più ostinato e insormontabile. Che cosa meglio di un tavolo, saremmo indotti a supporre, può immediatamente illustrare la proprietà di essere un tavolo? Il punto è che, se ti mostro un tavolo, a maggior ragione io ti invito a far riferimento a certe sue proprietà (con il rischio, semmai, che tu faccia riferimento ad altre proprietà, diverse da quelle che intendevo, quali l'essere bianco, o liscio, o di legno), e dunque a sussumerlo a qualche categoria che lo include nella sua estensione, e cioè a qu~lche predicato o segno o etichetta che gli si applica. E se anche intendessi mostrarti un oggetto non in quanto x o y o z, bensì proprio nella sua irripetibile unicità ontologica, ciò ancora una volta implicherebbe, semmai, l'impossibile tour de force di fare simultaneo riferimento a tutte le proprietà che possiede, ossia a tutte le categorie che lo includono nella loro estensione, e insomma a tutti gli infiniti predicati che gli si applicano. Da questa sorta di "semiosfera", ripeto, non possiamo in alcun modo uscire. È un autentico universo kantiano, trasceso da un noumeno inattingibile nella sua immediatezza. O, se si preferisce, un rompicapo che sfida i presupposti più inveterati del nostro pensiero. Proprio questa scarsa "naturalezza" deve, tuttavia, accompagnarsi a una tanto maggiore prudenza nel trattarne le implicazioni. n nche se la terminologia che ho qui adottato è diversa l.ilda quella di Eco (e di Peirce), credo comunque di aver restituito abbastanza fedelmente, nei suoi tratti essenziali, la nozione di semi osi illimitata. Essa è un'ovvia conseguenza della mutua reciprocità di predicati e proprietà sopra descritta: un segno può rinviare sempre e solo ad altri segni; il significato di un segno è costituito da altri segni; in breve, nomina nuda tenemus. L'adozione di una terminologia diversa non risponde però a un semplice capriccio. In effetti, nonostante le vistose difformità rispetto al senso comune, si avverte qualcosa di familiare nell'argomentazione appena discussa. Anche la percezione più "diretta", sappiamo ormai da tempo, è essa stessa classificazione, generalizzazione predicativa, costruzione categoriale. E questa medesima condizione di "intrascendibilità del linguaggio" è alla base di tutta la moderna filosofia della scienza, dalle versioni meno "positivistiche" dell'empirismo logico fino alle versioni più "anarchiche" dell'epistemologia postpopperiana: non esistono predicati "neutri", né categorie "naturali"; qualsiasi dato, anche il più "elementare", è a sua volta un costrutto carico di teoria. Teoria della percezione, teoria della conoscenza, teoria del linguaggio mostrano, sotto questo profilo, importanti convergenze. E forse, a questo punto, qualcuno si affretterà ad accreditare definitivamente tale "svolta linguistica" del pensiero contemporaneo aggiungendo pure i nomi fatidici di Heidegger e, più lontano nume tutelare, di Nietzsche ("non esistono fatti, ma solo interpretazioni"): così sarà completo il nuovo Pantheon, non so se si debba dire moderno o postmoderno, dove comunque ciascuno di noi sarà libero di celebrare i suoi culti preferiti. Prima di procedere a questa universale riconciliazione sotto il nome del segno sarà bene, tuttavia, tracciare anche qualche utile distinzione. Perché in effetti i problemi rinascono subito solo che torniamo a interrogarci su quella "semiosfera" a cui siamo poco fa approdati: e, come spesso accade con i problemi, non è detto che si debba trovare facilmente accordo sulla risposta. Il punto di partenza può essere offerto dal fortunatissimo slogan secondo cui non siamo noi che parliamo il linguaggio, bensì è il linguaggio che parla noi. Fa uno strano effetto che persino Eco talvolta lo faccia suo; lo spirito, è facile presumere, non sarà lo stesso di Lacan,di Derrida o dei decostruzionisti: pure l'incontro non è privo di significato. lo credo comunque che si tratti di uno slogan fuorviante, e che il suo sapore di paradosso non basti a conferirgli vero interesse. Esso si fonda su una prospettiva del tutto unilaterale. I segni sono dati lì davanti a noi, bell'e pronti a rinviarsi l'un l'altro nella catena inarrestabile della "semiosi illimitata": presi da questo vortice, come potremmo essere noi a parlare? noi siamo i semplici tramiti, gli strumenti docili o indocili (non cambia nulla) di un'affabulazione impersonale che si dispiega attraverso di noi. Il Soggetto (per non paria re dell'Oggetto) altro non è che un epifenomeno, una labile increspatura in questo fluire senza fondo, un effimero ingorgo in questa deriva dei segni (o piuttosto dei significanti): un'illusione insomma della Ragione Occidentale. Confesso che non riesco a sentire, di fronte a questa sorta di asserzioni, nessun brivido di emozione, o di trasgressione o di che altro. È l'incontro fra una grande tradizione empirista che, tradita dai "dati" percettivi (che dati non sono), ne trasferisce i tratti di oggettività ai "dati" del linguaggio; e una grande tradizione metafisica che, tradita dall'Essere, ne trasferisce al linguaggio i tratti di trascendenza. Ciò che ne vien fuori non è un paradosso. Gli autentici paradossi portano alla luce difficoltà autentiche che incontriamo nella rappresentazione della realtà, ma non pretendono di sostituire la realtà con la rappresentazione. Noi sappiamo benissimo che la freccia vola e che Achille raggiungerà la tartaruga: il paradosso esiste proprio perché c'è conflitto, perché la realtà sfida la nostra ragione. Questo, al contrario, non è un paradosso, ma semplicemente un equivoco.

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