52 Aborigeni australiani (Arando del Sud) in una recita rituale. parte è l'esistenza della poesia sonora che inizialmente mi ha spinto allo studio "scientifico" della voce. Questo termine scientifico (forse abusivo) ci rinvia alla questione della costituzione di una scienza globale della voce. Ho concepito la speranza di questa scienza all'epoca delle mie conversazioni con Corrado Bologna, l'autore dell'articolo Voce dell'Enciclopedia Einaudi: Bologna mi ha cortesemente consegnato una copia del suo manoscritto (assai più lungo ed esplicito di quello che Einaudi ha poi pubblicato) e questo è stato per me uno stimolo decisivo. Una scienza globale: in effetti la voce umana costituisce in ogni cultura un fenomeno centrale. Situarsi, per dir così, all'interno di questo fenomeno significa necessariamente occupare un punto molto elevato, da dove le prospettive abbracciano la totalità di ciò che sta alla base di tali culture, alla sorgente dell'energia che le anima, irradiandosi in tutti gli aspetti della loro realtà - della loro totalità - studiati da scienze più o meno separate, la linguistica, la sociologia, la storia, eccetera, tutto quello che richiamavo poco fa. Ci si potrebbe esprimere negli stessi termini a proposito del linguaggio in quanto tale, è vero. Ma intenzionalmente io ho operato uno spostamento dal linguaggio in sé al suo supporto vocale, prendendo quest'ultimo nello stesso tempo come realizzatore del linguaggio e come fatto fisio-psichico proprio, che oltrepassa la funzione linguistica. Secondo spostamento: dopo aver stabilito il fondamento generale del problema della voce e della parola, ho concentrato la mia attenzione sulle forme non strettamente informative (referenziali) della parola e dell'azione vocale, e mi sono interrogato sulla parola e sulla voce "poetiche": voglio dire, sui loro impieghi dotati di una certa finalità interna e di una formalizzazione adeguata a tale finalità. Questa strategia pone in termini particolari la questione metodologica dell'analisi e della sintesi. Vorrei rinviare, su questo punto, al mio libro leggere il Medioevo. Esso è dedicato principalmente, certo, alle ricerche storiche sul medioevo; ma credo di poterne estrapolare l'intendimento centrale. Anziché opporre analisi e sintesi, erudizione e interpretazine, io tendo a proporre un'alternanza di particolare e di universale (o almeno di generale), ma con l'importante riserva che solo il generale offre un punto di partenza valido. La vista iniziale, ciò che innesca il processo di conferma e (se è il caso) di prova, è dell'ordine della percezione poetica, e non della deduzione, e nemmeno dell'induzione. Questo è per me un punto di capitale importanza epistemologica. Una delle caratteristiche salienti di questo libro è sicuramente la vastilà della sua prospettiva di ricerca - dai poemi omerici all'epica "vivente", dalle civiltà africane allaforluna della canzone nel mondo contemporaneo. Ciò che ne deriva è una tipologia dell'oralità quanto mai ricca e articolata, e di conseguenza una più complessa e sfaccettata immagine della cultura letteraria stessa. In quale misura ha influito la sua esperienza di studioso di letteratura medioevale nella maturazione di una siffatta apertura di orizzonti di indagine? E quali sono i limiti più gravi di una poetologia (e più in generale, di una teoria lelleraria) vincolata a pregiudiziali, per dir cos,: eurocentriche e grafocentriche, ri/uuante a tenere nella debita considerazione le civiltà della voce, e maldisposta a concedere piena cilladinanza nel sistema letterario a importanti manifestazioni di oralità nella nostra stessa cultura, come per esempio la canzone? Ho appena parlato della necessità di superare (con molta prudenza) le discipline particolari, in vista di un tentativo di generalizzazione, o piuttosto di totalizzazione, dell'oggetto. Nella stessa prospettiva, mi sembra chiaro che è altrettanto necessario rompere il circolo vizioso dei punti di vista etnocentrici e, nel caso della poesia, grafocentrici. È a proposito del medioevo, di cui sono specialista, che la questione della vocalità mi si è posta per la prima volta. Fra i medioevalisti degli anni Sessanta e Settanta era di moda polemizzare sulla questione se la poesia medioevale fosse stata o meno oggetto di tradizioni orali, e in quale misura. Era certamente un punto importante sul piano informativo ma non toccava affatto l'essenziale, cioè l'effetto provocato dall'oralità sul senso stesso e sulla portata sociale dei testi che ci sono stati trasmessi dai manoscritti. Occorreva quindi concentrarsi sulla natura, il senso proprio e gli effetti della voce umana, indipendentemente dai condizionamenti culturali particolari ... salvo poi ritornare in seguito su questi ultimi, e ri-storicizzare, ri-spazializzare, se così posso esprimermi, lo studio delle diverse modalità della sua manifestazione, secondo le tendenze caratteristiche della cultura medioevale e delle sub-culture che la compongono. È questo ritorno che sto attualmente cercando di effettuare in un libro in corso di stesura. In questa operazione di disalienazione critica (e poiché il mio punto di partenza era il Medioevo, che, a dispetto della sua lontananza, non è interamente altro
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