Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

40 DISCUSSIONE/LERNER Dio - perchè mi ripugna ogni pur larvata forma d'idolatria -perchè considero con ebraica severità il compito della nostra vita terrena, e con ebraica serenità il mistero d'oltre tomba ... " e via di questo passo. Anche per il laico Rosselli, dunque, lo sguardo indietro sulle radici ebraiche è essenzialmente di carattere mitico, biblico. Quel discorso di Rosselli avrebbe probabilmente confermato nella sua irritazione un docente ebreo della Columbia University di New York, Yosef Haym Yerushalmi, proteso nello sforzo - a quanto lui dice immane e poco fruttuoso - di convincere gli ebrei a fare sul serio della ricerca storica, in qualche modo a ragionare su se stessi (in Zakhor, storia ebraica e memoria ebraica, Pratiche editrice). Per la verità, il dominio del Mito e della Predestinazione sui nostri sentieri di lettura della storia ebraica è ancora pressochè assoluto. Ce n'è ben d'onde, potrebbe osservare qualcuno, visti i "miracoli" e le vicissitudini di cui questa storia è piena. Fatto sta che sembrano convivere - nella pur rigogliosissima ricerca di tipo memorialistico ed evocativo - solo due filoni in qualche modo paralleli ma anche concorrenziali: un filone che definirei biblico-trionfalistico, decisamente prevalente di questi tempi, ed un filone diasporico-messianico che invece è un po' in disuso (ma è molto di moda fra i non ebrei). Non vorrei sbagliarmi, ma trovo significativo che la destra israeliana integralista (tipo i Gush Emunim che in nome della Bibbia rivendicano l'ebraicità della Cisgiordania) nel suo furore mistico si richiami poi effettivamente solo a quel breve periodo della storia in cui gli ebrei furono potenti militarmente e statualmente. Tralasciando invece quello che Primo Levi, riferendosi alla millenaria vicenda della diaspora, definisce "il filone ebraico della tolleranza". Non dimentichiamo che a suo modo anche il sionismo costituì, un secolo fa, un elemento di traumatica rottura nei confronti della tradizionale cultura diasporica. Il ritorno alla terra promessa "con le proprie forze terrene". era la traumatica negazione del messianesimo, cioè di una condizione ebraica di attesa, di mistico travaglio e di perenne insicurezza interiore che oltretutto, come cercherò di spiegare più avanti, si manifestava in forme non molto dissimili da quelle che si presentano oggi a noi, in questa epoca. Vedo riproporsi così, e in forme assai radicali, il problema sollevato da Primo Levi quando contesta il dogma secondo cui il baricentro dell'ebraismo oggi debba per forza identificarsi con Israele. Qui non si discute l'ovvio rapporto emotivo e spesso parentale di ciascuno con Israele. Nè si vuole riprendere la polemica caricaturale fra gli ebrei israeliani "normalizzati dal fatto di essere divenuti una maggioranza nazionale", e gli ebrei della diaspora "assimilati e corrotti da un grado eccessivo di tranquillità e benessere economico". No, non è un problema di concorrenza nè di pesi, se la bilancia debba pendere dall'una o piuttosto dall'altra parte. Il problema invece è affrontare coraggiosamente al di fuori di ogni dogma o riferimento obbligato non solo il resistere, ma anche il vivere, il crescere e l'articolarsi di una nuova identità ebraica nelle nuove forme particolari determinatesi nei paesi occidentali, fra gli ebrei integrati, fra coloro che appaiono prossimi all'assimilazione, che magari non rifiutano il matrimonio misto e considererebbero invece nè più nè meno asfissiante una vita di comunità. Oltretutto oggi la divisione ideologica pro e contro il sionismo si va facendo obsoleta: Israele è una realtà consolidata e sono rimasti solo in pochissimi a negargli il diritto all'esistenza. Abitiamo in paesi tranquilli per cui un'eventuale scelta sionista militante di emigrazione in Israele non si pone più in termini pressanti, se non in seguito a motivazioni strettamente religiose o familiari. Anche per questa ragione credo che si stiano sviluppando, dentro e fuori dalle comunità israelitiche, dei nuovi filoni di cultura ebraica, di cui quella yiddish americana è la più significativa, caratterizzati dalla ripresa di un travaglio d'identità tipico di quella che fu l'esperienza diasporico-messianica. Perchè io, "ebreo pericolosamente prossimo all'assimilazione", constato e prevedo che l'annullamento tanto temuto non ci sarà, e che anzi i protagonisti di tale persistente vitalità saranno quelli di cui più si diffida">Cerco di spiegarmi, innanzitutto con un ragionamento storico e razionale (che però, come al solito, non basterà). Gli ebrei di questa fine secolo vivono ancora una fase di forti tensioni generazionali. Non è poi così lontana nel tempo la rottura di molti dei nostri nonni e dei nostri padri con le loro varie terre d'origine, nelle quali di solito il rispetto delle tradizioni ebraiche più ortodosse era quasi assoluto. Questi nostri padri, religiosi o no, sono ancora fortemente impregnati di quella memoria. E noi, figli degli immigrati, con parenti spesso disseminati in vari paesi e antenati sepolti in cimiteri che nemmeno riusciamo a immaginare, pur tenendo legittimamente all'integrazione e anche all'assimilazione, siamo richiamati da troppi stimoli interiori, familiari, linguistici, ad una particolare diversità, anche sociologica, di figli d'immigrati. Sia che siamo nati qui, sia che siamo nati all'estero. E quelli come Rosselli, come Levi, quelli fieramente abituati a considerarsi italiani da sempre? Anche per loro credo che gli stimoli di diversità siano ancora troppo forti, e non solo per la prossimità temporale delle leggi razziali e delle deportazioni. Consentitemi un esempio bizzarro, di tipo personale. Fin da bambino faccio il tifo per l'Inter, ed è stato quindi con particolare disappunto che una domenica allo stadio di San Siro ho sentito i "boys nerazzurri", cioè i più accesi sostenitori della mia squadra, insultare gli avversari al grido "ebrei, ebrei". Il disappunto, però, non nasceva solo dall'ovvio e grave fastidio per una manifestazione antisemita. Derivava anche dal fatto che perfino allo stadio di San Siro, e fra i tifosi della mia squadra - cioè nel più classico dei momenti di omologazione e massificazione che si possano immaginare venivo brutalmente richiamato alla mia particolare diversità. C'è poi un argomento più in fondo (ma, per l'appunto, meno razionale) che mi convince della probabile continuità di un'identità ebraica proprio laddove i miei correlatori forse meno se l'aspettano. Per spiegarmi, a questo punto chiamo in

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