Linea d'ombra - anno II - n. 10 - giugno 1985

ESSEREBREIO, GGI Gad Lerner Questo è il testo di un intervento svolto venerdì 15febbraio 1985 a Milano nell'ambito di una Convenzione nazionale dei giovani ebrei italiani. la riunione aveva lo scopo di verificare lo stato dei tre filoni fondamentali dell'ebraismo - la tendenza ortodossa tradizionale. quella sionista e quella integrazionista -a sessant'anni di distanza da un importante congresso riunitosi a Livorno. nel quale per la prima volta essi si sono confrontati. Questo intervento - di cui si è mantenuta la forma discorsiva -doveva rappresentare la posizione integrazionista. la stessa sostenuta sessant'anni prima a Livorno da Nello Rosse/li. ~onosco poche persone di quelle presenti in questa sala, Ue pochi mi conoscono. Accetto però volentieri la parte che gli organizzatori mi hanno assegnato e quindi, per cominciare come si conviene in una presentazione di comodo, chiamatemi pure - se volete - "ebreo pericolosamente prossimo all'assimilazione". Anche se lo scopo del mio intervento sarà proprio contçstare questa definizione e, chissà, magari tranquillizzare qualcuno particolarmente preoccupato di tale presunto pericolo e più in generale ostile al diffondersi dei cosiddetti "matrirrloni misti". Vediamo: sono sposato con una persona non ebrea. Non frequento la sinagoga né sono in alcun modo praticante. Rifuggo tranne rarissime eccezioni la vita di comunità. Le mie attività di militante politico prima e di giornalista poi si sono tutte sviluppate lungo percorsi identici a quelli di molti miei coetanei non ebrei. Mi occupo pubblicamente di lsraelequasi solo quando si tratta di contestare la politica dei suoi governi ... Ricordo che quando tre an~i fa mi fu proposto di firmare l'appello di Primo Levi contro l'invasione del Libano, rifiutai perché non mi andava di prendere una posizione pubblica "in quanto ebreo". Anche se poi mi contraddissi quando si trattò dì organizzare manifestazioni ebraiche sotto le sedi diplomatiche israeliane, dopo la strage dì Sabra e Chatila. Sì, ammettiamolo, a prima vista sono proprio un classico esempio di "ebreo pericolosamente prossimo all'assimilazione". Qualcuno dì voi a questo punto potrebbe averci già messo una bella croce sopra e domandarsi cosa diavolo ci faccio qui stasera. Posso dargli ragione solo su un punto: la mia presenza qui è del tutlo occasionale o, meglio, è un singolo e breve episodio. In realtà, però, anche a noi ''ebrei pericolosamente prossimi all'assimilazione" succede, più spesso dì quanto non si creda, dì riflettere sulla nostra personale identità ebraica, sulle radici di una persistente diversità che ci sentiamo addosso. Ci succederà meno, forse, rispetto a chi (o per rigore religioso o per fede sionista) ha fatto della sua identità ebraica µna vera e propria ragione di vita. Ma ciò non di meno mi pongo una domanda: non può essere invece che questo nostro approccio diciamo un po' selvatico, ma pure intimo e non superficiale, alle radici della nostra identità, non può darsi che sia un approccio con un suo valore originale, magari anche meno ingenuo di quanto non appaia'' lo sono convinto dì si, e cercherò di spiegarvi il perché. Pur essendo tutt'altro che un erudito, specie in cose ebraiche, vorrei cominciare da una citazione. La traggo da un bellissimo libro di lrvìng Howe sulla storia dell'emigrazione ebraica negli Stati Uniti, da poco tradotto in italiano. Sono le parole sconfortate rivolte a un amico da un tale poeta Menahem Dolìtsky, uno dei tanti ebrei dell'Europa orientale che si ritrovano trapiantati nell'East Sìde di New York. Dice Dolitsky: "Lo sai cosa succede in questo paese ai poeti ebrei? Prima fase - poeta ebreo. Seconda fase - insegnante ebreo (o meglio, allevatore, coi bambini che fanno da bestiame recalcitrante). Terza fase - ti metti a scrivere romanzacci da serve. Non far nulla, non essere nulla, vai in giro a vendere candele e fiammiferi - fai il sarto, il ciabattino - tutto, ma non il poeta ebreo in America". Forzandola un po', possiamo farne una sorta di metafora. La metafora della resistenza amara e disincantata all'assimilazione nel nuovo mondo laicizzato, quindi impoverito e ostile. La denuncia dell'annullamento d'identità cui il poeta ebreo, dopo l'emigrazione, teme di andare incontro. Col senno di poi, noi sappiamo come in realtà proprio dall'integrazione e dalla parziale assimilazione di quegli ex abitanti dello "shtetl", nacquero invece negli Usa fior di insegnanti e di romanzieri, artefici di una cultura ebraica ricca e moderna. Ma, tornando al povero Dolitsky, ce lo immaginiamo un poco simile a noi, noi che ci sentiamo giustamente e fortemente attratti dal nuovo mondo di cui siamo parte, ma anche insistentemente diversi. Perché in fondo i momenti dì maggiore e più travagliata evocazione della propria identità, in ciascuno di noi, anche nei più razionali, sono i momenti in cui una particolare forma di astrazione ci porta a sentirci un po' "poeta ebreo". Difficilmente, infatti, il rapporto con tale identità può essere vissuto in forme razionali ed essere accompagnato da una consapevolezza di ordine storicistico. È gioco forza, il nostro, un rapporto fondato sull'emozione, sui ricordi, sugli affetti, sulla ricerca dì una qualche improbabile radice di stabilità. Per non dire anche sulla mistica, componente tipica di una tale perenne instabilità interiore. Per auirarmi a parlare in questa convenzione, mi hanno lusingato dicendo che avrei dovuto in qualche modo sostenere la parte che sessant'anni fa, a Livorno, toccò a una personalità affascinante come Nello Rossellì. Troppa grazia. Mi limiterò a ricordare come anche quell'intellettuale, laico e razionale per eccellenza, dovendo spiegare la propria identità ebraica, lo fece in forme necessariamente irrazionali. Cito: "lo sono un ebreo che non va al tempio il sabato, che non conosce l'ebraico, che non osserva alcuna pratica di culto. Eppure io tengo al mio ebraismo ... li problema ebraico non é, o io non lo sento, come il problema fondamentale, unico della mia vita ... Mi dico ebreo, tengo al mio ebraismo perché è indistruttibile in me la coscienza monoteistica, che forse nessun'altra religione ha espresso con tanta nettezza- perché ho vivissimo il senso della mia responsabilità personale e quindi della mia ingiudìcabilità da altri che dalla mia coscienza e da

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