telligenza critica al lavoro. È, in verità, uno spettacolo curioso: l'impressione è che quanto più il critico colleziona frammenti di verità sottratti alla mistificazione, tanto più il quadro complessivo a cui lavora prende il sapore del falso e del nuovamente mistificatorio. Singolare dialettica di lucidità analitica e cecità sintetica. Letta da vicino essa tradisce i contorni di una situazione che va ben al di là della specificità del caso lsolla. Nel suo doppio movimento verso e lontano dalla verità lsoua non fa che mimare istintivamente il paradossale nonprocedere della cultura propria della musica colta. Le sue diagnosi sono a loro volta leggibili come sintesi. Parlano di vecchi mali, insopportabilmente tenaci. Il fatto è che questo affiora sempre in questo libro quando è tirato in ballo il presente: una sostanziale riluttanza per la modernità. Isotta mi ricorda il tipico intellettuale che vede tull 'intorno sfasciarsi l'impero, che ne denuncia lo sfascio e che pure altro non saprebbe vivere che quell'impero. La sua sistematica denuncia degli equivoci a cui si concede la prassi musicale attuale ha sempre il sapore della restaurazione. Tende a leginimarsi in base ai modelli consegnati dalla tradizione senza mai attingere la propria verve polemica dalla rivendicazione di un nuovo sistema di modelli. Si veda la sua brillante confutazione del neofilologismo sopra registrata: tra tutte le argomentazioni, certo legittime e puntuali, manca proprio l'un_ica ~he davv~ro sarebbe decisiva: la rivendicazione, anche in campo musicale, di quel concetto di interpretazione che la rinessione propria della modernità ha messo a fuoco e che proprio nulla ha a che vedere col ritorno alle origini e con un pedissequo rispetto per la Storia. Non è un caso che là ove sfiora l'argomento, Isotta si avvalga di due riferimenti, Adorno e Pareyson, che rappresentano di fatto l'epoca aurorale dell'ermeneutica contemporanea: il punto in cui l'elaborazione di una nuova normativa dell'interpretazione ancora cercava di coniugare il proprio palese carattere eversivo con l'esigenza di salvare lo status quo del regime culturale, o quanto meno le apparenze. Tutto sommato, Isotta ci salva da Harnoncourt per riconsegnarci nelle mani di Furtwa.ngler e Karajan: meglio che niente, ma noi si sarebbe sperato, magari, qualcosa di più ardito. Analoghe riOessioni dettano le pagine sul rapporto tra pubblico e musica postwagneriana. Mai come qui risulta evidente il rischio che si corre a fidarsi troppo di Adorno. A leggere Isotta ci si fa l'impressione che da qualche decennio a questa parte il pubblico della musica sia caduto preda di un progressivo e inarrestabile rincretinimento. A me sembra che la cosa meriterebbe di essere enunciata in modo leggermente diverso: da qualche decennio in qua accade sempre più spesso che siano i cretini a scegliere la musica colta come propria passione personale. Nel senso: il pubblico intelligente - voglio dire quello consapevole del proprio tempo - si è rivolto altrove. Il Senso è nomade e il pubblico, che in questo ha un istinto infallibile, sa seguirlo: sa essere, di volta in volta, dove il Senso accade. Nell'ottocento riempiva i teatri d'opera, oggi preferisce i cinematografi e la televisione: alcuni dei luoghi, appunto, in cui più genuinamente accade la modernità. In un'epoca che si è consegnata felicemente alla cultura dell'immagine - in un tempo in cui chiunque sa cos'è una dissolvenza incrociata e anche un ragazzino sa distinguere un filmetto spazzatura da un film d'autore - suona stonato stracciarsi le vesti perché quasi nessuno ha un'idea decentemente approssimativa di cosa sia il contrappunto. Addirittura comico, poi, mi pare desumerne, adornianamentc, un movimento di regressione collettiva. Semplicemente accade che la gente faccia propri altri tipi di linguaggio: e lasci decadere quelli a cui, in passato, aveva affidato la propria domanda di un Senso. Isotta, che tanto acutamente ha inquadrato 11 tipo sociale del filologo exsessantottino, non può non accorgersi di DISCUSSIONE/BARICCO chi realmente è l'appassionato di musica classica dei nostri giorni: è l'animale braccato dalla modernità. Le sale da concerto, e in massimo grado i teatri d'opera, stanno diventando i dorati rifugi per chi conta di sfuggire all'esplosione del moderno. Lì, al concerto, l'ottocento è a portata di mano. Lo stesso passivo ed ormai entusiastico concedersi al tedio della musica contemporanea fa parte del gioco: è un modo di esorcizzare il nemico. Come se il sorbirsi un po' di avanguardia una volta al mese valesse ad assolvere il dovere del moderno: quando invece nulla manca tanto radicalmente la modernità, oggi, come gran parte della Nuova Musica. Più leggo Isotta più mi pare di riconoscervi tutti i vizi di quel mondo che lui, a volte genialmente, racconta. Se posso dir così, la sua mi sembra una riflessione critica a trazione posteriore: in ciò rincttc alla perfezione l'andatura con cui il mondo della musica colta va verso il suo futuro. Mi chiedo quanto un simile falso movimento possa portare lontano. Lontano dal gran minuetto che sta trasformando quel mondo in una ridicola festa postuma. Le illustrazioni di questa sezione sono di Amonio Sabatelli. 13
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