128 mata della biografia dell'artista, secondo una lettura da psicanalisi dei poveri) il film di Forman conserva tracce spurie, quasi da omaggio/citazione, nell'episodio del padre di Mozart che logicamente, troppo logicamente, diventa la statua del Commendatore nell'opera Don Giovanni (la figura del padre, tra l'altro, non esisteva nel testo teatrale di Schaffer). Pagato il non necessario tributo alla tradizione, Forman se ne distacca per prendere di petto le questioni che più gli stanno a cuore: il mistero stesso della creazione e, in sottordine, il rapporto genio/mediocrità, artista/società, legge/trasgressione, musica- /sessualità. Progcllo sicuramente ambizioso, di ceno il più ambizioso della sua carriera, per il quale Fonnan ha dispiegato il meglio delle potenzialità produttive della grande macchina spettacolare hollywoodiana. 11 risultato è brillante ma inconsistente: luccica come l'oro. ma sotto la superficie nasconde il metallo assai meno nobile di cui son fatte ancne le statuette dell'Oscar. Le coreografie di Twyla Tharp e le scene di Josef Svoboda per le sequenze d'opera sono sicuramente eccellenti, ma non possono evitare il sospetto di un estetismo fine a se stesso. La bellezza plastica del film, debitrice della tanto conclamata risoluzione di girare esterni e interni in autentici ambienti praghesi (mantenutisi intatti dalla metà del 19° secolo), anziché restituire lo splendore del vero e la preziosità della ricostruzione storica, accentua piuttosto l'impressione da "Museo Grévin annesso a un Louvre degli antiquari", secondo la definizione di un critico francese. Anche perché, invece di farsi "coinvolgere" emotivamente e intellettualmente dal suo ritorno nel paese natale. Forman si è comportato esattamente come se si trattasse di un set hollywoodiano, rifiutandosi per sua stessa ammissione a ogni confronto: "Quando sono disceso sul marciapiede della stazione, mi sono reso conto che bisognava.che mi liberassi in fretta della mia nostalgia e delle mie emozioni. perché non avevamo che un mese di tempo per la preparazione". E ancora: "Ero tagliato fuori da Praga, totalmente isolato. La mia vita sociale fu quasi inesistente durante tutto il periodo delle riprese". Un turista americano, frettoloso e distratto, non si comporta diversamente quand'è in visita ai monumenti del Vecchio Continente. Tutto in reahà, nella messinscena di Amadeus. congiura per confermare il sospetto di una lezione di bellezza impartita dall'Europa agli yankees. Ma non basta un atto di volontà per diventare uno Stanley Kubrick, e il modello di Barry Ly,u/onsi mantiene a molte incolmabili lunghezze di distanza. Qui siamo piuttosto al livello intellettuale della concezione che del Settecento può avere un americano del Middle West. Va in questo senso anche la tanto acclamata demistificazione della leggenda mozartiana: attribuendo a Salieri i segni delle virtù ascetiche dell'artista che dalla sua infanzia entra nell'arte come si entra in seminario, e a Mozart le connotazioni triviali di un punk petomane e libertino che dispiega senza sforzi né cancellature la grazia divina della creazione, il film procede in realtà per semplificazioni estreme e plateali contrapposizioni. Superficialità mascher,Ha da modernismo, che esteriorizza i connitti e banaliZ?.a le più profonde tensioni, consegnando il film a un'estetica da besiseller. I materiali ci sono tutti (lo strazio dell'invidia professionale, l'esaltazione della creazione gioiosa, la turpe abiezione della mediocrità, l'orgoglio passionale della rivolta blasfema), ma allo stato bruto: manca una scrittura capace di dare credibilità e spessore all'insieme. Valga per tutte, il grottesco involontario della sequenza in cui Salieri sancisce la propria ribellione a Dio, bruciando il crocefisso: ridotto alla significazione fattuale, il gesto è privato d'ogni carica emozionale e metaforica. Per tutto il film, Forman gira attorno al mistero della creazione, senza riuscire a guardarlo in faccia. Ci riesce in un·unica occasione cd è il momento più bello di Amadeus, forse l'unico in cui le ambizioni del regista si sposano con i risultati, e la musica con il film. In precedenza, il regista si era accontentato di punteggiare il racconto con brani di opere mozartiane, in una sorta di alternanza - per dirla in termini musicali- di splendide "arie" e lunghi, sovente opachi "recitativi", secondo un molto convenzionale principio di costruzione "alla Salieri" di cui Mozart fece precisamente piazza pulita (è uno dei temi del film, per quanto tangenziale, il significato rivoluzionario della concezione dell'artista o, se si preferisce,dell'artista come rivoluzionario). Soluzione, sia detto per inciso, singolarmente anti-musicalc per ciò che attiene alla composizione del film, né vale· come attenuante il fatto che paradossalmente lapièce teatrale non prevedesse quasi l'uso della musica. Ma torniamo alla sequenza della dettatura del Requiem. quando Mozart morente compone con furia visionaria e angoscia crescente, di fronte a un Salieri attonito che fatica a tenergli dietro prendendo appunti. La scena - assente dall'originale- non è solo un pezzo di bravura, il culmine emotivo di un lavoro quasi altrimenti privo di autentiche emozioni: è anche il luogo dove prendono corpo i fantasmi che percorrono l'intero film. Per qualche lungo, intenso, sublime istante, si ha la sensazione di poter scoprire i segreti stessi della creazione, di percepire ciò che passa nella testa del compositore. Come in trance, Mozart fa balenare davanti a sé e davanti a Salieri (dunque, davanti allo spettatore), i differenti brandelli dì cui si compone una partitura, separando gli strumenti, gli archi dai fiati, per poi ricomporli nella totalità dell'opera. "E come una lezione di anatomia, ma senza pretendere di spiegare le cose logicamente'' (Forrnan). Riesce, insomma, qui al regista di filmare il processo stesso della creazione in ciò che esso precisamente ha d'inspiegabile, di magico, d'innato. Nello stesso tempo, viene messo a fuoco il tema del vampirismo che connota la relazione tra i due musicisti. Succhiando le1teralmente l'ispirazione di Mozart, Salieri s'illude di appropriarsi della sostanza vitale di quel genio di cui non gli era sfuggito, sin dal primo momento e a differenza dei suoi distralli contemporanei, il carattere divino. Ma la morte di Mozart lascia Salieri alle prese con la tortura del rimorso, il film con il furore inadeguato di un finale ad effetto. Il lungo carrello nei lugubri corridoi di un asilo di pazzi, tra bave e catene, gabbie e camicie di forza, è il turpe contrappunto visivo al delirio di Salieri che si proclama "'Re dei Mediocri", l'apoteosi negativa di una santificazione abietta. Immeritevole degli 8 Oscar ricevuti, Amadeus non solo non è il capolavoro acclamato da molti generosi estimatori, ma non è neppure un "grande film ammalato". Ne è anzi l'opposto. Per Tuff aut, un "grande film ammalato" è un capolavoro abortito, che soffre generalmente di una dose eccessiva di sincerità, fonte di errori di percorso: riprese avvelenate dall'odio o accecate dall'amore, un impantanarsi non percepibile, un'esaltazione ingannatrice. Amadeus. al contrario, è il risultato di un calcolo calibratissimo nel cui dosaggio prevale nettamente l'astuzia sulla confessione diretta. Anche a voler far credito a Forman (e non è il caso) della qualifica di "autentico cineasta, tra i più importanti del cinema colllemporaneo", non si può non rilevare che il film maschera con vigore davvero sospetto la propria ragion d'essere, al punto da far dubitare che ne possieda una. La soluzione dev'essere probabilmente ricercata nella morbosa difesa d'ufficio della mediocrità, appena mascherata da una (ovvia) esaltazione della potenza creatrice di un'arte che non deve render conto che a se stessa.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==