124 SCHEDE/TEATRO gorifcra Suburbana, esaltata scenograficamente da begli interventi di Mauro Stacciali, Nanda Vigo e Giuliano Mauri. Ma gioca a favore la fame di nuovo e di diverso che la garrula chiacchiera di nuovo trillante nelle pubbliche sale provoca in spettatori stremati di noia e di perbenistica professionalità. Garrula, nonostante i seriosissimi propositi. è stata la locanda di Norma Macctmna. di Gaetano Sansone, che Andréc Ruth Shammah ha dircllo al Pier Lombardo. Oddio, dubbi li devono aver avuti, al Pier Lombardo, se nel programma, tra diffuse citazioni di Albert Schwcitzcr, EdgarMorin, Agnes Hellcr e Francesco Albcroni, confessano che durante le prove ··molte volte è risuonata la domanda prima: qual è la necessità di quello che stiamo raccontando ... Li capisco. Per teatranti avvezzi a confrontarsi con la scrittura di Tcstori (di cui tutto si può dire salvo che non sia un drammaturgo autentico), deve essere stato arduo trovarsi a ripetere sentenze tipo "Un uomo ha un sol colpo nella vita e noi l'abbiamo sprecato", paragoni made in Sanremo quali "La nebbia è come quattro parole d"amore buttate lì: volano via al primo colpo di vento", o banalità come ··pensieri, pensieri che ti penetrano in testa come chiodi di ghiaccio'". Purtroppo le perplessità sono state rintuzzate e una qualche risposta a quella fatidica "domanda prima" è stata rimediata. Peccato non arrivi anche a chi è gill, a soffrire in platea. E che assiste a un'emiplegica vicenda funcrario-magicoprocessual-catartica. confusa e pretenziosa, tra Ugo Betti e Maurice Maeterlinck, senza l'urgenza morale del primo e le poetiche risonanze del secondo; ma vi fa capolino anche Diego Fabbri, depurato però delle sue furberie da cattolico. E l'unico spunto che poteva prestarsi a sviluppi interessanti- l'arrivo nella tetra locanda di due attori che credono di trovarsi nel mezzo di un training à la manière de Barba e vengono invece coinvolti loro malgrado in quella sorta di inchiesta esistenziale che costituisce il nocciolo del dramma - si a moscia subito e resta un motivo inerte, a mezza via tra il controcanto, la parodia e l'accenno al gioco illusorio della verità leatralc. Difficile valutare il lavoro dì regista e attori alle prese con una struttura cosi lasca e una scrittura cosi opacamente unidimensionale. La Shammah cerca volonterosamente di trascegliere significati e di immetterli nel bel contenìtore di Gianmaurizio Fercioni. Efficace la ruvida presenza di Gianni Mantesi, attento a vivificare un personaggio piuttosto scontato: ammirevoli il controllo e la misura di Lucilla Morlacchi, in una parte che invece le offriva il destro di buttarsi in un dolorisrno a lei fin troppo Cristino Crippa e Paolo Rossi in Amanti (foto di Andrea Stringei/i). congeniale. Mariella Valentini ha confermato di essere una delle poche giovanissime da seguire con attenzione: è bella e ha sicuro talento, anche se qui ricalca molto da vicino la disponibilità scontrosa, la timida bruschezza che l'avevano fatta ammirare, in occasione della ripresa dei Promessi sposi alla prova, nel personaggio di Lucia. Diversamente garrulo è stato Amanti. prodotto dal Teatro dell'Elfo con la regia di Gabriele Salvatores. A Milano l'Elfo è il teatro sociologicamente più vicino a un pubblico giovanile metropolitano: attivissimo, nei suoi numerosi spettacoli ha sempre cercato dì rispecchiarne gli umori e i gusti più che di interpretarlo. di seguire l'onda più che di anticipare o approfondire l'esperienza. Ma negli ultimi anni aveva mostrato divolersi emancipare dal cliché ormai stretto di teatro "giovane" per definizione, rinnovando con successo moduli interpretativi (penso soprattutto a Nemico di classe) e proponendo coraggiosamente autori stranieri (oltre al Nigel Williams dell'appena citato Nemico di classe, Botho Strauss e Athol Fugard, in Italia assolutamente sconosciuto). Con Amami si innesta ambiziosamente la retromarcia. Ambiziosamente, perchè è chiara l'intenzione degli autori del copione(Edoardo Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli e lo stesso Gabriele Salvatores) di offrire un testo esemplare che attraverso quattro stor'ie parallele e variamente incrociantisi all'interno di uno stesso caseggiato dia uno spaccato dei sussultoni erotico-sentimentali in una quotidianità post-maschilista post-femminista e nunc-povcrctta. C'è poi la volontà, già in passato operante nell'Elfo, di rivisitare i generi cinematografici americani: dopo il musical di Sogno dì una no11ed'estate e di Fantasticks e il demenziale di flelzapoppi11, è ora la volta della commedia sentimentale e sofisticata, tra Ncil Sìmon e Woody Alleo. Ambizioni entrambe legittime, purchè sorrette da uno scavo in profondità nelle attuali contraddizioni affettive l'una e l'altra non da un riciclaggio di formule collaudate ma dall'assunzione consapevole di schemi formali (ritmi, toni, proporzioni ... ) entro cui calare il proprio gioco. Qui invece la ricetta è semplificata. Si prendono situazioni già scontate prevedibili (salvo quella del "terzo piano", sorprendente non perchè originale, ma per sgangheratezza e implausibilità) e al pubblico che giulivo le riconosce si dice: ecco qui la tua realtà: specchiati e vai. E così tutti pacificati: i teatranti convinti di aver assolto a quel nobile dovere che già Shakespeare assegnava al teatro ("reggere, per così dire. lo specchio alla natura" ecc. ccc.) e per di più secondo l'antico preceuo ("oras pocula circum / contingunt mcllis dulci navoque liquore"); il pubblico felice come un batterio nel suo brodo massmediologico, ma una volta di più depauperato della possibilità di sperimentare in maniera nuova i propri vissuti. Anche gli interpreti, molti dei quali all'inizio di stagione si erano pur confrontati col difficile Visi noti, semimemi confusi, qui sembrano a disagio, senza ritmo, asserragliati in un loro manieristico balletto di mossettine e moine, di finti stupori ed esagerati nervosismi, di occhioni sbarrati piedi sbattuti ciondolamenti ancheggianti. Con tre vistose eccezioni (e coi tempi che corrono, bisogna pur dirlo, sono tante): l'ottimo Salvatore Landolina, nell'unico personaggio "vero" dell'intero spettacolo, un solitario suo malgrado, bloccalo nella coatta difesa di una privacy imposta dalla paura, e i bravissimi Antonio Catania e Paolo Rossi. Quest"ultimo soprattutto possiede ormai un pieno controllo dei propri mezzi espressivi e costruisce un personaggio che affonda le sue radici in un preciso contesto sociale ma che poi sul palco vive di vita proprìa, svincolato da ogni riferimento che non sia funzionale all'hic et nunc del gioco scenico. Si regala così allo spettatore il duplice piacere del riconoscimento e della scoperta. E Catania, così diverso, furbo gattone stanco quanto Rossi è un grumo di nervi pronti a scattare nel surreale, elusivo quanto l'altro è intrusivo, ellittico quanto l'altro è esplicito, solo
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