giudizio, perché concilia, e come! Nei contenuti (la vittoria dello spirito sul corpo) e nella forma (che unisce a durezze di banale e risaputa provocazione laccate visioni di cieli e tramonti, e un dialogo decisamente impossibile). Vuol rifarsi, parrebbe, allo spiritualismo di un Artaud, ma annacquandone la radicalità. Dove si dimostra che un intellettuale rigoroso come Resnais può anche prender cantonate ma, al momento giusto, non bara; mentre un intellettuale nevroticamente e egoisticamente più rozzo, anche se non meno "geniale", di fronte ai problemi che esulano da un'esperienza e da una sofferenza diretta, arriva solo a parlare di ciò che è tuttavia comprensibile, estricabile anche se non risolvibile, e diventa solo intellettualistico di fronte a quelli che esulano dal libresco e dalla nevrosi. TRESULLASTRADA Gianni Volpi La città, prima di tutto ("vorrei fare dei film su New York come Rivette ne fa su Parigi, mostrando ogni volta un aspetto differente, senza fine"), e in una chiave assai precisa e personale. Jim Jarmush, cineasta e musicista poco più che trentenne già allievo (alla N.Y.U. Graduate Film School) di Nicholas Ray e collaboratore (per Nick's movie) di Wim Wenders, è forse colui che ha reso in forma più radicale il senso di estraneità, di "esilio", di essere stranieri nella · propria città che è stato della "new wave" newyorkese. Di essa, nel suo esordio, Permanent vacation ( 1980), restava, nonostante tutto, quel fondo irrir°ante perché autocompiaciuto nelle sue chiusure e attese passive, d_ideriva e separazione. li film raccontava gli ultimi due giorni a New York di uno dei suoi consueti sfasati, solitario, sonnambolico. Soprattutto, erratico. Era il suo un itinerario senza sorprese e senza ragioni in una città spenta di macerie e esseri degradati su cui si addensa un senso· di distruzione imminente,· una città da cui si fugge (verso l'Europa: è già un segnale), ci si allontana in una bella "soggettiva" finale in battello, ·ma dove altri arrivano, da essa sedotti (ed era il segno non casuale di un rapporto con l'Europa non in un senso solo). La Grande Mela era vista nelle sue sconnessioni, in una serie di visioni rarefatte e frantumate che erano naturalmente (cioè, senza nessuna intenzionale negazione del senso) insensate e ruvide (anche nella grana fotografica); e essa s'identificava con un preciso st1le di vita, era quello stile di vita. Questo aspetto, questo "clima" urbano, culturale, esistenziale che era il dato più interessante del film, si dilata e si approfondisce nel più disteso e acuto racconto di Stranger than Paradise ( I984). Tre personaggi: una sorta di "blues brother" il cui tempo scorre tra la televisione e ogni tipo di scommessa, alle corse dei cavalli, dei cani, a poker; l'amico che ne è il "doppio" dipendente; la cugina giunta inattesa dall'Ungheria, da un'altra realtà, e perdipiù donna in un universo rigidamente maschile. Tre luoghi: una tetra New York (meglio: il buio delle bische e dei vicoli periferici; il disordinato minialloggio del protagonista, il jazzman John Lurie); Cleveland, neve e gelo, tra normalità yankee di lavoro e di rapporti della cugina e memorie magiare della vecchia zia; la Florida, mitico paese del sole, ma più prosaicamente "ridotta" a grige spiaggie e soprattutto vissuta dal trio Willy-Eva-Eddie da una camera di motel. Sono ambienti e figure di un modo di vivere marginale, precario ma alieno da conf1itti. Senza aggressività e senza mitizzazioni. Si direbbe, un fine in sé. C'é, in questa stramba e triste storia, in questo intrecciarsi di rapporti e destini, un senso di autentico, di vero, di vite reali, e di una realtà mutata: non c'è più nulla della volontà di cambiare il mondo e cambiare la vita di Robert Kramer e del "movement", né qella rottura sul piano dei valori e dei comportamenti che era stata di tanti fenomeni, dagli hippies ai punk. Solo malinconia e disillusione, l'afasia morale e sentimentale di proletari, di outsiders, eppure irriducibilmente diversi dai nuovi modelli e miti reaganiani. · La sua naturalezza, la sua trasparenza al reale che per la sua forza finisce per dare un alone "mitico" ai suoi derisori non-eroi, non è però casuale, trovata, non è il prodotto di illusioni neorealistiche, di calchi del documento reale: è, invece, ed è quello che da noi non si è mai compreso, frutto di stile, di un accurato lavoro sui propri materiali, di controllo formale. Un bianco e nero intenso e astraente, luci naturali (grazie all'uso di una pellicola a alta sensibilità che surroga alla scarsità di parchi lampade), una narrazione libera, tutta gesti e sensazioni, silenzi rotti da scarne frasi, ma di un grande rigore sia sul piario della composizione (ampi piani fissi, rari movimenti di macchina e primi piani, selettività degli elementi delle inquadrature) sia su quello strutturale, quasi ciclico, con una prima e un'ultima parte, più d'interni, che si richiamano e racchiudono una seconda parte più mossa. Tutto ciò in un Ouire di notevole scioltezza, di film che cresce su se stesso, a sequenze indipendenti, divise e unite dallo schermo scuro, e che perciò danno SCHEDE/CINEMA gran peso agli attori e li coinvolgono, giocate come sono sulle "situazioni" e sulla durata. Può essere una lezione anche per i nostri "indipendenti" la capacità di Jarmush di tradurre in forma i limiti produttivi: per esempio, scene riprese perlopiù una sola volta, senza ricorso al montaggio, il che è stato reso possibile da lunghe settimane di prove con gli attori, con i personaggi scritti in funzione loro, mutati, messi a fuoco assieme a loro, e ha permesso di dare un senso di "tempo reale" caratteristico del film. Senza dubbio resta esemplare la sua forma impersonale ma non meno partecipata, ossia la scelta di una giusta distanza. Di più: senza darne l'impressione, Jarmush costruisce un racconto complesso, percorso dallo humour malinconico di gente che sbaglia i gesti e i tempi (il TV-lunch surgelato e la serata al cinema a quattro, le reticenze e il regalo del vestito fuori moda, ecc.), segnato dall'intrusione dello strano, dall'ecçentrico (l'operaio, alla fermata dell'autobus, diffidente, assente, cui chiedono surreali indicazioni), del fantastico. Fantastica in ogni senso è la sequenza della visita, a Cleveland, al lago Erie, invisibile tra nebbia e ghiaccio. Poi c'è la presenza del caso, l'intreccio di percorsi e destini. Per uno Scambio di persona, Eva si ritrova in possesso di una forte somma. Per un equivoco (inconscio?) si consuma la loro separazione: Willy in aereo, in viaggio verso l'Ungheria, verso le proprie "odiate" radici; la cugina in una stanza di motel,. decisa a trovarsi nonostante tutto un suo spazio in America; l'amico solo in una estran.ea strada del "paradiso" Florida. È un controcanto lievemente grottesco, ma nutrito non dico di "temi", ma certo di dati. Questo del "sogno americano" (e la prima parte che riprende un suo precedente m.m. s'intitola L'altro mondo) pragmaticamente accettato nella sua misera realtà, e quello delle "radici" (Willy che è in realtà Bela, la zia ancora magiara nella parlata e nelle abitudini dopo decenni) non sono che quelli più appariscenti. Insomma, ciò che si attua nel film è il raro incontro di umori del tempo e di una cinefilia produttiva poiché perfettamente assimilata. Per un verso, personaggi e atteggiamenti a metà riOesso di una realtà, a metà figure di una mitologia cinematografica di déracinés, di misfits. Per l'altro, tutta una serie di topoi classici: l'on the road, la commedia degli equivoci e del caso unita a un pizzico di "nero" mafia-droga, di mistero, ecc. Ma non ci se n'accorge. Tanti nomi si possono fare per il cinema di Jarmush (e tanti ne fa J armush: Ozu e Straub, Bresson e Godard, Rivette, Vertov, che sono però più i 95
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