Linea d'ombra - anno II - n. 9 - aprile 1985

94 SCHEDE/CINEMA hanno come "uscita" dal realismo dialogico degli incontri e degli "a solo" unicamente gli inserti (commentati dalla musica di Henze, il resto del film non ha musica) che mostrano su fondo generalmente nero o grigio-nero particelle fluttuanti nello spazio dell'immagine, piume o fiocchi o atomi che, più che servire a "distanziare" o dar tregua alla interna tensione della scena servono, credo, a dire l'indicibile: a ricordare il passaggio di Simon nel regno dei morti, a semplificarne la labile consistenza, la morbidità, l'abbandono, l'ambiguità tra rifiuto e richiamo. La scelta di fare di Simon un redivivo, un Lazzaro, è forse proditoria, ma è l'unico modo di dar livello al film, sin dalla primissima scena. Simon muore e torna, ma sarà vieppiù ossessionato dal ricordo di quel "passaggio" dall'altra parte, attratto e respinto da quell'indescrivibile che ha vissuto, e per la prima volta portato a riflettere sulla morte. Gode di un "rinvio" (ricordate il sursis di Sartre?) transitorio - come transitorio, un rinvio, è il passaggio di tutti sulla terra. Deve pensare alla morte, non può più esorcizzarne la presenza e la scadenza. Nonostante l'amore di e per Elisabeth. La sua seconda morte provoca in Elisabeth, la sua compagna, quella "perdita della presenza e crisi del cordoglio" (ricordate il saggio di De Martino da questo titolo?) che ella non riesce a esorcizzare. Elisabeth sceglie di morire (di uccidersi) come unico modo di essere ancora vicina all'amato, di partecipare della sua morte. A nulla valgono i richiami, le spiegazioni, le certezze di Judith e Jéròme, nei quali s'incarna al meglio lo spirito del protestantesimo e in qualche modo del cristianesimo, una "fede" diventata religione. Elisabeth rivendica la sua scelta e mette con questo in crisi la fede dei due, ne dimostra, se così si può dire, gli aspetti consolatori, il limite sia di fede (chi ha più fede di lei, infine?) che di amore. Quello di Judith e Jéròme•è agapé, è carità; quello di Elisabeth è eros. Più che a una difesa di un modo pagano di affrontare la morte della persona amata, e in definitiva la morte, si incarna in Elisabeth un diverso tipo di religiosità, non inquadrabile né risolvibile nella consolazione e speranza collettiva di una chiesa (non le basterebbe neanche La compresenza dei vivi e dei morti; ricordate il libro di Capitini?) Ogni personaggio ha le sue ragioni, o meglio la sua fede; quelle di Elisabeth sono le più radicali e semplici, le più scandalose di tutte: "la mia sola religione è Simon". Questa definizione assoluta toglie la parola agli altri: la Parola. Ma non toglie loro la ragione, non esclude e anzi riafferma, per la vita, la necessità primaria della religione. Resnais e Gruault non ci propongono un pamphlet alla Koestler in difesa del suicidio (argomento di moda, in un mondo disumaResnais descute con gli interpreti una scena di L'amour à mort. nato e arido com'è il nostro). (Sia detto per inciso, ma lo si sarà capito, L 'amour à mort esclude ogni richiamo eros-thanatos di tipo freudiano o, peggio, batailliano. Finalmente!) Intanto il suicidio di Elisabeth è un suicidio d'amore, una forma d'amore e non di rivolta o di vendetta o di disperazione come sono in genere i suicidi; e poi non vengono affatto negati né il rigore intellettuale di Jéròme né le aperture e le inquietudini di Judith. Solo, si ricorda a loro e a noi un problema, il problema, e si invita loro e noi a non barare con esso. A quarant'anni di distanza da Ordet di Dreyer, L 'amour à mort è il solo film che, a mia conoscenza, e su posizioni meno diverse da quello di quel che non sembri, osi affrontare quest'argomento con la serietà che esso merita. Quali che possano essere le nostre conclusioni, la personale filosofia o religione che ci siamo costruiti per esorcizzarlo, la sua provocazione va raccolta, discussa, rispettata. P.S. - Mentre Resnais stava terminando L 'amour à mort, Godard stava ideando le vous salue, Marie. Non si tratta di riattizzare la vecchia polemica rive gauche/rive droite, per carità. Ma è tuttavia significativo che anche Godard si chini su un problema di tipo religioso, che parli di nascita dimenticando la morte, e che ne parli secondo una sorta di neo-spiritualismo dai confini incerti e, sotto molti aspetti, puerili. le vous salue, Marie è un film deludente, e dispiace dirlo pensando a un film come Prénom Carmen, che dimostrava una seconda giovinezza del regista, la sua inconciliabilità con le consolazioni del cinema contemporaneo. Prénom Carmen era un film costruito sulle contraddizioni, sulle dicotomie: tra uomo e donna, tra capitale e lavoro, tra immagine e suono, tra cinema e video, tra studio e plein air; e sulle contraddizioni stesse dell'autore: tra uomo e artista, mercato ·e ricerca, "passione" e "ideologia". Ci è parso un fim di una schizofrenia sofferta e non nascosta, anzi rivendicata: di conciliazioni impossibili, in cui armonia e disarmonia cozzano tra loro aspramente in ogni immagine del film, e la piaga resta aperta. Il rimprovero che era forse possibile fare a Godard, dopo questo film e Passion, era di limitarsi a un cinema sugli effetti che lascia nell'ombra le cause. Era stato questo, in passato, il suo tentativo più strenuo, la impellenza di una spiegazione del mondo. Ma ci sembrava coraggioso e utile che almeno lui (in paragone ai tanti suoi allievi e, da ultimo al superficialissimo Wenders di Paris, Texas) gettasse ancora sale sulla piaga e non profumate e colorate penicilline. le vous salue, Marie sembra negare questo

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