Linea d'ombra - anno II - n. 9 - aprile 1985

che Narciso è ossessionato da sé al punto dell'autodistruzione, è vero anche, e persino Ovidio lo ammette, che Narcislo sopravvive in due forme, una nel mondo sotterraneo in quanto continuazione di sé, l'altra sotto mutate spoglie nel fiore che porta il suo stesso nome. Analogamente, il romanzo degli anni sessanta e settanta, lungi dall'essere morto o moribondo, ha subito una mutazione, il cui tratto più manifesto è l'interesse per se stesso in quanto scrittura. Questo tipo di romanzo tuttavia rivela - ed è questo il 'paradosso' cui allude il titolo di Hutcheon - un'apertura verso il lettore 'comune' che il vecchio tipo di metaromanzo sicuramente non aveva. Gli scrittori presi in considerazione sono Fowles, Barth, Nabokov, Marquez, gli italiani Calvino e Volponi, e molti altri, quasi sempre autori di romanzi il cui successo è stato decretato dal pubblico oltre che dalla critica. Secondo Hutcheon è il romanzo stesso, come modo di scrittura, ad essere narcisista e ad aver manifestato, fin dalle origini, i segni dell'ossessione per sé e la vocazione all'autoparodia. A partire da Cervantes infatti il romanzo scaturisce dalla riflessione e dalla violazione di più antiche forme narrative; si pensi a De Foe, a Diderot, a Sterne. Questa tesi per quanto suggestiva non è del tutto nuova. L'avevano implicitamente affermata i formalisti russi nel rivalutare l'idea di parodia, con la quale intendevano indicare quei processi di defamiliarizzazione e di trasgressione delle forme consuete che sono la vita stessa del romanzo. Sklovskij ad esempio, nel suo Teoria della prosa parla di Sterne come del grande rivoluzionario della forma narrativa, mostrando come sull'impianto del romanzo di avventure egli attui una serie di spostamenti e di violazioni delle attese, mettendo continuamente a nudo il procedimento della scrittura. Il romanzo dunque nasce e si sviluppa in un processo continuo di superamento di sé attraverso la parodia e il pastiche: l'enfasi sugli elementi della propria performance, in Sterne come nel moderno ritorno del metaromanzo, è il segno di quello spirito di sovversione che è proprio del racconto scritto. In questo senso 'letteratura narcisista' diventa una definizione molto ampia che viene a coincidere con la letteratura stessa e non con una sua linea deviante. La maledizione che pende sul capo di Narciso è ciò che genera il romanzo: non poter possedere l'oggetto delle sue brame, e però aspirarvi continuamente. Questa ricerca, questo desiderio fanno sì che il romanzo non si esaurisca mai. Una definizione di questo tipo implica comunque un significato più profondo o forse più metaforico del termine narcisismo. Parlare di rispecchiamento o di innamoramento di sé - anche in letteratura - significa amare i propri mille volti, giocare con le proprie immagini differenti a rimescolarle, come fa l'acqua smossa che rimanda immagini diverse dello stesso oggetto che vi si rifrange. Poiché la letteratura si produce in ambiti 'saturi' di letteratura, è inevitabile che torni su se stessa: come negli specchi collocati l'uno di fronte all'altro ciò che si specchia è una stessa immagine ripetuta all'infinito e che sembra ritornare all'indietro, allo stesso modo parlare di riflessione della scrittura su se stessa significa celebrare quella che Manganelli chiama la "cerimonia del plagio", significa per la letteratura prolungare la propria vita all'infiniDISCUSSIONE/SPLENDORE to: passare e ripassare all'interno di sé, non cancellare nulla, riproporre accostamenti bizzarri, nuove sintesi, e così via in un gioco infinito. Molti autori contemporanei giocano soprattutto sulla rottura/ricomposizione delle forme e dei generi, come fa Burroughs, o in modo diverso Vonnegut e Doris Lessing. Altri giocano con la fantasia e si riappropriano dei miti o di altre forme narrative, filtrandoli attraverso la loro consapevolezza moderna. Se pensiamo ad alcuni grandi romanzi contemporanei, - da Cent'anni di solitudine al Tamburo di latta, da Memorie di Adriano fino ai recenti / figli della mezwnotte e Cassandra, ciò che li accomuna è l'aver riaffermato il gusto dell'invenzione tornando al mito o all'esotico o al magico o alla storia (ciascuno riusando l'intero patrimonio del proprio retroterra culturale) e nell'averlo riproposto in una sorta di magica sintesi con la cultura occidentale moderna. Un fantastico dunque che non è mai evasione o nostalgia per un mondo perduto, ma che invece agisce sull'ignoto o l'inconoscibile del presente, su quella sorta di assenza del mondo secolare, il senso del sacro. Pensiamo alla fantascienza contemporanea la cui ricerca di verità non è più impossibile, o un oggetto elusivo come era stato per Mary Shelley, e pensiamo a tante delle fantasie moderne che nell'antico linguaggio del fantastico esprimono soprattutto lo strano, l'altro. Non è un caso che molti dei romanzi citati sono spesso romanzi storici, nei quali eventi a tutti noti, o 'microstorie' vengono raccontati con feroce ironia o facendo ricorso al discorso dell'alterità. Il miscuglio di verità e fantasia muove sempre, come nel romanzo storico tradizionale, da un'esigenza o almeno un desiderio di verità. Solo che la verità di cui si parla non è più quella dei fatti e dei documenti, cui nessuno più crede, ma un'esperienza umana più complessa che comprende tutto, invenzione e realtà, e in cui l'esperienza del fantastico è altrettanto reale quanto la percezione del reale stesso. Del resto, la storia fatta di dati ed eventi non è essa stessa un mito, una costruzione, un artefatto? (È quanto si va affermando nei modi diversi di fare storia da Il formaggio e i vermi a Il ritorno di Martin Guerre). I romanzi di cui parlano Scholes e Hutcheon sono dunque veramente dei mostri strani e meravigliosi, come i leviatani e i pachidermi, e come essi destinati a scomparire, oppure la prova evidente della capacità di sopravvivenza, dell'inestinguibilità della favola? Non c'è dubbio che la storia continua, come nell"apologo' di Robert Scholes, dove il "C'era una volta ... " ha per protagonista il Romanzo stesso: "C'era una volta un paese che si chiamava Romanzo, confinante da un lato con le montagne della Filosofia e dall'altro con una grande palude detta Storia. Gli abitanti del Romanzo avevano un grande dono, il dono di raccontare storie capaci di divertire gli uomini. Finché non ebbero contatti con le popolazioni dei territori vicini, essi furono felici e soddisfatti del proprio dono senza desiderare altro. Ma il progresso, e il miglioramento delle comunicazioni, li mise a contatto con strane popolazioni che vivevano sui confini e aldilà dei confini. Questa gente non sapeva raccontare storie come la gente del Roman77

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