Linea d'ombra - anno II - n. 9 - aprile 1985

NARCISISMO ENARRATIVA Paola Splendore " D o non lo so. La storia che sto raccontando è tutta immaginazione. I personaggi che creo non sono mai esistiti fuori della mià fantasia. Se ho finora finto di conoscere la loro mente e i loro pensieri più segreti, è perché sto scrivendo in una convenzione (nonché in parte con un vocabolario), universalmente accettata all'epoca in cui si ambienta il mio racconto ... Perciò forse sto scrivendo un'autobiografia trasposta; forse vivo attualmente in una delle case che ho inserito nella narrazione; forse Charles sono io stesso travestito. Forse è soltanto un gioco." Così parla in apertura del capitolo tredicesimo il narratore della Donna del tenente francese di John Fowles, spezzando all'improvviso la narrazione per una pausa di riflessione come usava farsi nel romanzo del sette/ottocento. È rientrato in scena il narratore: ma la sua voce, nel passato sempre autoassertiva, pronta a giudicare e a insegnare una morale, ora invece istilla sconcerto e confusione. Il narratore moderno, infatti, se a volte si rivela invadente e un po' voyeur come il suo antenato, più spesso se ne sta rintanato tra le pieghe della narrazione per uscirne, perplesso ed esitante, ma deciso a scardinare ogni prevedibilità e a mettere in dubbio la sua stessa funzione. La consapevolezza dell'autore di essere 'dentro' il romanzo è diventato forse il segno più inquietante della pratica narrativa degli ultimi venti/trenta anni. Lo spazio della narrazione fino ad allora rigorosamente impersonale si è come rianimato; la storia non si racconta più da sé; la voce narrante qua e là svela la sua identità per ricordare che è tutto un gioco, una simulazione. Questa personificazione dell'istanza narrativa si esprime negli stili e nelle modalità più diverse: basti pensare ai romanzi, diversissimi tra loro, di Nathalie Sarraute, di Italo Calvino o di Salman Rushdie. Ciò che li accomuna è la presenza, più o meno avvertita, di un'inquietudine, un disagio o un'intenzione parodistica di fronte a un modo di scrittura trasparente, a quell'equilibrio che pareva essere stato raggiunto con il realismo prima e poi con il modernismo. Il modernismo si era affermato infatti come critica a un modo di rappresentazione del reale unidimensionale e ingannevole: Conrad, Flaubert e James erano stati i primi a sperimentare la pluralità del segno linguistico in un mondo per la prima volta dominato dai segni. L'oscurità era la figura retorica di quel mondo e la scrittura da innocente si fece ambigua. La generazione di autori oggi definita postmoderna ha estremizzato la condizione di incertezza e di indicibilità del reale: Barth, Barthelme, Coover, Gass - gran parte della narrativa americana d'avanguardia degli anni settanta - tende ad affermare soprattutto la sostanza fittizia del romanzo, l'autoconsapevolezza della scrittura. Se la consapevolezza di sè è sintomo di una crisi di identità del soggetto, il fenomeno potrebbe ascriversi a una delle manifestazioni della "pseudo-coscienza di sé" che Christopher Lasch, nel suo La cultura del narcisismo, diagnosticava come il segno più evidente della decadenza di uno stile di vita. Nel suo •ctiscusso,saggio, pubblicato nel 1979, Lasch esaminava gli epigoni dell'individualismo compètitivo, un modo d'essere carat- " teristico forse come nessun altro della cultura americana con- .. temporanea. Egli osservava che la logica interna di quella cultura aveva finito col generare un'ossessiva preoccupazione dell'individuo per se stesso, e che questa a sua volta aveva portato al disgregarsi del senso del sociale, alla spettacolarizzazione della politica, al culto del successo perseguito per se stesso. Persino la letteratura si scopriva ingabbiata nella prigione della consapevolezza di sé e manifestava segni di narcisismo esasperato. L'autore non più preoccupato di creare l'effetto-reale, di dare credibilità a ciò che scriveva, come se non riuscisse a far altro che a parlare della difficoltà della scrittura, si metteva a esplorare i vari aspetti dell'artificio letterario, facendo di questo la sua "magnifica ossessione". Lasch non approfondisce ulteriormente il senso del narcisismo in letteratura che intende non in senso metaforico (la riflessione che sempre la letteratura opera su se stessa, sul genere, sulla forma, sul linguaggio), ma come quel tipo di scrittura che mette in scena l'autore e l'atto della scrittura, il discorso ripiegato sull'infinito mormorio di se stesso, Il romanzo cui allude Lasch ha molti tratti in comune con quella scrittura metanarrativa che in Europa si era già manifestata fin dagli anni cinquanta, e da cui essa in parte discendeva. Pensiamo a Beckett, alla letteratura dell'assurdo, al nouveau roman, e a tutti quegli autori che di fronte all'impossibilità di raccontare il reale alla vecchia maniera, hanno praticato una forma di scrittura di auto-cancellazione, che sembrava non aver nulla da dire su alcunché e che recisamente negava l'uso del linguaggio narrativo in chiave referenziale. Robbe Grillet, il più noto tra i nouveaux romanciers, in una serie di articoli definiva l'intreccio, i personaggi, etc. semplicemente 'nozioni scadute'. Negli stessi anni Godard girava i suoi primi film destrutturanti, e Fellini con 8 112 offriva una riflessione su un modo narrativo, proprio del linguaggio cinematografico, ormai superato. I tempi erano maturi perché i critici si mettessero a parlare in termini apocalittici del destino del romanzo. Basterà citare per tutti il notissimo saggio Aspettando lafine di Leslie Fiedler, del 1964, in cui le morti violente di Hemingway e di Faulkner, e l'assegnazione del Nobel a Steinbeck, venivano visti come segni emblematici di decadenza, la fine di un modo di fare e di intendere la letteratura. r.r.lentre alcuni dunque lamentavano che la scrittura nar- ~ rativa avesse perso ogni contatto con il reale, per altri quello che era andato perso era soprattutto il gusto del narrare una storia. I romanzi infatti si popolavano di personaggi di scrittori-in-crisi che passavano il tempo a guardarsi l'ombelico, a esaminare la propria nevrosi. Era la "realtà a non essere più realistica" come sosteneva il protagonista di un racconto di Mailer, oppure si trattava dell'obsolescenza di un modo di scrittura? Il fatto vero era che "il reale", ritenuto da sempre essere l'oggetto della rappresentazione artistica, stava diventando un dato problematico. Bisognava cominciare a chiedersi, quale reale? La tesi della morte-del-romanzo era per lo più sostenuta da quei critici che consideravano degno di attenzione un solo set-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==