Sotto la porta di Angelo vidi un filo dì luce. Lo stesso la notte successiva. Così mi decisi a dargli un segnale della mia esistenza parallela, un segno di complicità. Ero sicuro che Angelo non passava la notte chino sulle sue carte. Feci passare un'oretta per dare a tutti il tempo di addormentarsi, e andai a bussare piano alla sua porta. Bussai un po' più forte, e soltanto dopo abbassai la maniglia. Avevo paura non ci vuole immaginazione per crederlo. La camera era deserta e perfettamente in ordine: niente carte sul tavolo, niente di niente. Scesi al piano inferiore in punta di piedi, e anche sotto, non so perché, continuai a camminare senza far rumore e senza accendere luci. Dalle grandi finestre entrava abbastanza luce lunare per evitare gli ostacoli. Vidi qualcosa muoversi sul divano posto davanti alla finestra più grande: erano Angelo e Alessandra. Si baciavano, si accarezzavano, si stringevano forte. Restai immobile. Il cuore pompava come stessi correndo, sentivo le pulsazioni nel collo, come se tutto quel sangue, inutile agli arti, affluisse d'urgenza al cervello. Me ne tornai indietro, silenzioso come un fantasma. Dico fantasma perché a quelli cominciai a pensare, appena rientrai in camera. Soprattutto al fantasma di Monica, cioè a quel che restava di lei al di sopra delle zolle di terra che la ricoprivano. I miei pensieri, da indistinti, si contornarono di nero, suscitando fantasie assurde. Non cercai neppure di immaginare me, su quel divano, al posto di Angelo, ormai non c'era più spazio per quei sogni, la mia infatuazione doveva cominciare a svanire. Al suo posto prendeva forma il rancore per Angelo. Lo detestavo, in quei momenti, per quel che faceva a Monica, a Alessandra, a me. Angelo si faceva strada con la ruspa, ogni cosa al di sopra della sua soglia di tolleranza al dolore doveva sparire. Tu sottoterra, tu tra le mia braccia perché di notte non riesco a dormire, e tu lì a guardare, caro amico, perché non si dica che faccio le cose di nascosto. Sembrava in preda a un delirio paranoico di potenza. Lo detestavo, in quei momenti e lui, consapevole o no, si comportava in modo detestabile. Andai avanti a pensarla così per un paio d'ore, dopo di che divenni più ragionevole e tornai alle mie precedenti considerazioni: Angelo non aveva retto al dolore e era impazzito, forse in modo non definitivo: era traumatizzato, avrei detto a un giudice. Di certo baciava la cognata scambiandola per la moglie, fantasticava, con quei baci sul divano. Dovevo costringerlo a interrompere la commedia, eravamo oltre ogni limite di ragionevolezza e lui doveva tornare in sè, qualunque sè avesse dovuto affrontare. .-:1 estai sveglio ancora a lungo perché avevo deciso di li.a parlargli quella notte stessa, ma non si decideva a tornare in camera. Ebbi così tutto il tempo per rimpiangere le vacanze con i soliti amici, con i quali le angosce e gli orrori saltavano fuori soltanto durante una breve passeggiata lungo il mare. Piccole e grandi nubi che comunque passavano, non restavano sospese in eterno, sozze e puzzolenti come smog di città. Cercai anche di leggere, per ingannare l'attesa, ma non STORIE/PIERSANTI potevo farlo: letto un rigo non riuscivo più a trovare il seguente e mi perdevo in un mare di sillabe. Quando sentii Angelo salire le scale, albeggiava. Non si curava neppure di far poco rumore. Ero a pochi passi dalla sua stanza quando mi vide, e non sembrò sorpreso. Aveva la maglia arrotolata sulla camicia, i capelli arruffati, gli occhi gonfi. Doveva averci fatto l'amore, con Alessandra, forse nello stesso divano dove li avevo visti. "Devo parlarti subito, Angelo". "Andiamo da me". Sembrava di ritorno da una festa, non lasciava trasparire il minimo imbarazzo. "Mi rendo conto che è tardi e sarai stanco". "No, entra, non sono stanco". Entrai e mi lasciai cadere su una poltrona. Angelo sedette a cavalcioni una sedia proprio di fronte a me. "Prima di tutto, Angelo, credo di poterti tranquillizzare da un punto di vista legale. Hai agito come si agisce quando si perde la testa, per un grande dolore. Tu volevi bene a tua moglie, vero?" "Sì, certo". "Questo è l'essenziale. Angelo, devi deciderti a parlare. Te lo dico perché non puoi fare altro, non c'è scelta, spero che tu capisca quello che ti sto dicendo". Angelo stava sprofondando nell'apatia, dovevo chiamarlo spesso per nome se volevo catturare la sua attenzione. "Secondo te non possiamo fare diversamente?" "No, sono sicuro che devi parlare". Angelo chiuse gli occhi ma subito dopo li spalancò e li fissò su di me. Cercava di commuovermi. "Non possiamo aspettare una settimana?" "No. A meno che tu non voglia rovinarti". "Rovinare ... tutto?" mi chiese. "Se finisci in galera non può succederti niente di buono. Stai dando i numeri, Angelo, devi rendertene conto". "Ho fatto l'amore con Alessandra". Non dissi nulla, e lui continuò. "Assomiglia molto a Monica ... è soltanto più giovane. Credo che non mi capirà quando le dirò di Monica". "Neanch'io ti capisco". "Neanche tu?" Aveva stretto le labbra e si atteggiava a incompreso. "Smettila Angelo". Non gli parlavo con distacco, cercavo di riprendere i toni della nostra amicizia passata, che lui sembrava ricordare molto bene. Ricordava, me l'aveva detto durante una passeggiata, il giorno in cui lessi l'annuncio sul giornale del bar, e ricordava che ero presente e ridevo. Doveva avermi per questo scelto come persona-simbolo, come sacerdote dei suoi grandi cambiamenti. Quella notte non mi disse granchè: pianse un po', poi si riprese, ma restava annebbiato, non voleva ricominciare a pensare. "Hai paura che il padre se la prenda con te? Posso parlargli io, se non te la senti". "No, ci penso io. Va bene. Il discorso è chiuso". Ma si capiva dai continui tic del viso che il discorso non era chiuso per niente. Infatti aggiunse: "Ma non domani". 59
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