LAMOGLIEDI ANGELO Claudio Piersanti rn on c'era niente, neppure una camicia, neppure una aii.l maglia, che non fosse nuovo di zecca. Anche la grande valigia adagiata sul sedile posteriore della mia automobile era da poco uscita da un negozio. Se n'era già andato lo stipendio di un mese, ma ogni tanto si deve uscire dalle piccole abitudini: le serate con gli stessi amici, quei dieci chilometri di autostr~da, l'ufficio, e così via. Avevo deciso da tempo di passare una'settimana in Liguria, tanto per assaporare quel principio d'estate che si cominciava a sentire dentro la primavera, e anche per divertirmi un po'. Avrei affittato una casa con i soliti amici, ma, appunto, i soliti, i soliti. Desideri qualcosa di nuovo e invece ecco il consueto, le abitudini che ti invischiano. La telefonata di Angelo aveva buttato all'aria tutto quanto. Chi ha avuto un amico improvvisamente diventato importante, e quindi chi ha perso un amico per questo, può capire la mia emozione. Un tempo sapevo tutto, di lui, e di colpo più nulla. Aveva risposto a un'inserzione vista per caso nel giornale del bar (ero presente, e ridevo mentre lui prendeva nota!) e presto era salito mo! to in alto; si era anche sposato con una ragazza metà svizzera e metà italiana, ricca da ambedue le parti, e molto bella, a giudicare dalle foto del matrimonio che avevo viste in un rotocalco di mia madre. "Hai visto Angelo"? aveva detto mia madre indicando il servizio. "Sì, lo sapevo, mi ha telefonato in ufficio". Mentivo. In realtà non sapevo nulla del matrimonio, non sapevo neppure dove si erano stabiliti, in quale nazione, voglio dire. Niente di niente: qualche cartolina e un paio di telefonate in cinque anni. Pensavo che Angelo si stesse dimenticando di me; forse, mi dicevo, una volta l'anno, chissà perché, gli torno in mente: il tempo di una cartolina. Pensavo così senza provare rancore, con un pizzico di invidia inerte, quell'invidia per le cose lontane che anima la fantasia della gente. Senza un particolare motivo ora Angelo mi invitava in montagna, in una casa della moglie. Avrebbe passato lì ancora dieci giorni e sarebbe stato contento di ospitarmi. La casa era in Val D'Aosta, a pochi chilometri dai due confini. Avrei potuto dirgli subito sì, ma mi presi un giorno, per decidere, forse per orgoglio, non so. Mi preparavo a partire come ci si prepara. a una festa grande, con la stessa eccitazione. Il viaggio fu piacevole: un po' di musica, il paesaggio magnifico, poco traffico. Andavo piano e mi godevo ogni cosa. Il pensiero di arrivare in una casa di sconosciuti, perché ormai anche Angelo era uno sconosciuto, mi procurava qualche fugace momento di ansietà. Ma la montagna mi piace, e è facile immaginare quanto mi. piacque allora: non uscivo di città da almeno sei mesi. Sulle montagne il sole era ancora forte, su tutta la valle c'era penombra. Mi sembrava un sogno, quella piccola valle, bellissimo il suo fiume. Ero lì, tra le guglie aguzze del Monte Bianco e il Gran San Bernardo, come potevo non essere contento? Mi dicevo: se un'amicizia è buona.può durare lunghi anni senza bisogno di troppe frequentazioni. Angelo doveva avere una vita molto intensa, con il suo lavoro, di sicuro non aveva avuto molto tempo per pensare a sé, in quegli anni così movimentati e pieni di cambiamenti. Capiterebbe a chiunque, di smarrirsi in un cambiamento così grande. Raggiunsi il paese più vicino alla casa e fu sufficiente l'indicazione di un solo passante per imboccare la strada giusta. Più mi avvicinavo alla villa (ora la vedevo in parte, tra gli alberi) e più pensavo ad Angelo, a come l'avrei trovato. n ngelo era immutato, cioè era sempre giovane, e sem- w pre con la camicia aperta sotto la giacca; e era anche diverso, quasi un altro, per l'espressione seria che tutte le linee del volto contribuivano a creare piegando verso il basso, forse di un millimetro appena. Mi colpì, la sua espressione - avevo avuto il tempo di guardarlo mentre si avvicinava al cancello -tanto che abbassai i fari della macchina. Era quasi notte, soltanto al centro del cielo c'era un po' di blu, terso e stellato. L'aria che entrò dalla portiera era fredda. Ci salutammo con una forte stretta di mano, poi lui salì in macchina con me per guidarmi alla casa. Non c'erano domestici, in casa, c'era soltanto un'anziana signora tedesca che preparava i pasti, ma la vidi solo più tardi. La casa era come me l'aspettavo, grande,· piena di squarci verso la natura, calda, con pochi mobili da evitare. Pensai che ci si poteva passeggiare come in un bosco. Ci sedemmo su due poltrone voltate verso un gruppo di abeti ormai neri. Angelo beveva, ma non doveva essere un'abitudine, so riconoscere un bevitore incallito. "Mi fa molto piacere vederti", si decise a dire dopo avermi studiato qualche secondo. Anche a me faceva piacere vederlo. Ma ancora mi intimidiva, perché continuavo a sentire che lui era un uomo di potere, mentre io ero sempre lo stesso. La mia giacca nuova aveva smesso di piacermi, con tutti quei ridicoli lunghi peli verdi che spuntavano qua e là tra gli scacchi. Alle poltrone giungeva poca luce obliqua, da lontano. Angelo aveva messo il bicchiere a terra e si era aggomitolato sulla poltrona: si mordicchiava la punta del pollice come se io non potessi vederlo. "Sei solo?" gli chiesi. "Stasera arriveranno i genitori e la sorella di Monica. Ma Monica non c'è". "Peccato, l'ho vista in foto e m'è sembrata carina". "Anche la sorella è carina, vedrai lei" "Bene. Ma ... tua moglie non tornerà neppure nei prossimi giorni?" · "No. Anche perché ... tutti credono che sia partita, ma non è vero. È qui." "Qui?" "È qui vicino". ,, Con la mano sinistra si spingeva la fronte verso l'alto, e i_ ciuffi di capelli, che aveva ancora folti e neri, gli spuntavano tra le dita. E mi guardava, come volesse allungarsi la fronte e tener lontani i capelli dallo sguardo;· che era aperto, senza segreti. "Monica è morta", mi disse, come confermando qualcosa di già detto. "È sepolta là, davanti all'abete più alto, quello". Non c'era bisogno che indicasse col dito, l'abete era al centro di un prato: gli altri, fitti e scuri, erano confusi nello sfondo.
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