Linea d'ombra - anno II - n. 9 - aprile 1985

24 sero udienza. Io fui tra i cinque. Ho molto viva nella memoria l'impressione che mi fece vedere da vicino - nel suo ufficio del Ministero del Governo, in Plaza Italia - il temuto personaggio. Era un uomo minuto, cinquantenne, incartapecorito e indolente, che sembrava guardarci come attraverso un vetro e assolutamente non ascoltarci. Ci lasciò parlare - noi si tremava - e quando finimmo rimase ancora a guardarci, senza dire nulla, come beffandosi della nostra confusione. Poi aprì un cassetto del suo scrittoio e tirò fuori alcuni numeri del "Cahuide", un giornaletto ciclostilato che pubblicavamo clandestinamente e in cui, naturalmente, lo attaccavamo. "Io so chi di loro ha scritto ciascuno di questi articoli - ci disse -, dove si riuniscono per stamparlo e ciò che tramano nelle loro cellule". E, in effetti, sembrava dotato di onniscienza. Ma, nello stesso tempo, dava una deplorevole impressione di miserabile mediocrità. Si esprimeva con errori grammaticali e la sua indigenza intellettuale era patente. Durante quel colloquio, vedendolo, ebbi per la prima volta l'idea di un romanzo che avrei scritto quindici anni più tardi: Conversazione nella Cattedrale. In esso volli descrivere gli effetti che sulla vita quotidiana della gente - sui suoi interessi sulle sue occupazioni, amori, sogni e ambizioni - causa una dittatura con le caratteristiche dell"'ottennio" di Odria. Mi ci volle molto tempo prima di trovare un filo conduttore per la massa dei pesonaggi e degli episodi: l'incontro casuale e la chiaccherata con cui si intrattengono, per tutta la narrazione, un vecchio guardaspalle e sbirro della dittatura e un giornalista, figlio di un uomo d'affari che prosperò con il regime. Quando il libro uscì, l'ex Presidente del Governo - ritiratosi ormai dalla politica e dedicatosi alla filantropia - così commentò: "Se Vargas Llosa fosse venuto a trovarmi, avrei potuto raccontargli cose più interessanti". Così come il Collegio Militare Leoncio Prado mi aiutò a conoscere il mio paese, mi aprì molte delle sue porte anche il giornalismo, professione che mi portò a esplorare tutti gli ambienti, le classi sociali, i luoghi e le attività. Cominciai a lavorare come giornalista a quindici anni, durante le vacanze del quarto anno delle scuole superiori, al giornale "La Cronica", come redattore di cronaca locale e poi di cronaca nera. Era allucinante peregrinare di notte da un commissariato all'altro per informarsi di quali crimini, rapine, aggressioni, incidenti, fossero avvenuti, e anche per seguire le indagini sui casi spettacolari, come quello della "Farfalla Notturna", una prostituta assassinata a coltellate nel Porvenir, che mi fece fare un'escursione per i centri della prostituzione di Lima, le "boites" di malamorte, i bar di ruffiani e travestiti. Allora il giornalismo e la malavita - o per lo meno la bohème più malfamata - confondevano un poco i loro confini. Finito il lavoro, era un rituale obbligato andare a seppellirsi con i colleghi in qualche luttuosa bettola, generalmente gestita da cinesi e con il pavimento ingombro di segatura per nascondere il vomito degli ubriachi. E poi ai bordelli, dove i cronisti di nera - per paura dello scandalo - ricevevano un trattamento preferenziale. Durante gli ultimi anni dell'Università lavorai in una radio - la Panamericana-, ai notiziari giornalistici. Lì ebbi occasione di vedere da vicino - da dentro - il mondo del radioteatro, universo affascinante, di sentimentalismi e truculenze, di casi meravigliosi e infinita pacchianeria, che sembrava una versione moderna del feuilleton ottocentesco e che aveva un indice d'ascolto così alto che, si diceva, un passante avrebbe potuto ascoltare, camminando per qualsiasi strada di Lima, le puntate di Il diritto di venire al mondo di Félix B. Caignet, poiché non c'era una sola famiglia che non le seguisse. Questo piccolo mondo effervescente e pittoresco mi suggerì il soggetto di un altro dei miei romanzi: La zia Giulia e lo scribacchino. In apparenza, si tratta di un romanzo sul radioteatro e il melodramma; in realtà è una storia su qualcosa che sempre mi ha affascinato, qualcosa a cui dedico la maggior parte della mia vita e su cui non ho mai cessato di interrogarmi: perché scrivo, che cosa è scrivere. Fin da bambino, ho vissuto assillato dalla tentazione di convertire in storie tutte le cose che mi capitano, fino all'estremo di avere a tratti l'impressione che tutto quanto io faccia e mi accada - tutta la vita - non sia altro che un pretesto per fabbricare storie. Che cosa c'è dietro questo incessante trasmutare la realtà in racconto? La presunzione di salvare dal tempo divoratore certe esperienze amate? Il desiderio di esorcizzare, trasfigurandoli, certi fatti dolorosi e terribili? O, semplicemente, un gioco, un'ubriacatura di parole e fantasie? Quanto più scrivo, tanto più mi pare difficile trovare la risposta. Finii l'Università nel 1957. L'anno seguente presentai la mia tesi e ottenni una borsa per un Dottorato a Madrid. Andare in Europa - arrivare in qualche modo a Parigi - era un sogno che accarezzavo da quando avevo letto Alexandre Dumas, Jules Verne e Victor Hugo. Ero felice, stavo preparando le valigie, quando il caso mi offrì la possibilità di fare un viaggio in Amazzonia. Un antropologo messicano, Juan Comas, stava partendo per l'Alto maranòn, dove si trovano le tribù

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