20 Lima, "El Agustina" (foto di Giovanna Borgese, Agenzia Grazia Neri). ligioso in gran pompa, nella cattedrale. I rapimenti venivano annunciati e festeggiati, come la piena del fiume che, per alcuni mesi all'anno, portava la vita alle fattorie cotoniere. Quel grosso villaggio che era Piura, era ricco di avvenimenti che accendevano l'immaginazione. C'era la Mangacherfa, di capanne di fango e nuda canna, dove si trovavano le migliori rivendite di chicha, e la Gallinacera, tra il fiume e mattatoio. I due quartieri si odiavano e a volte nascevano battaglie campali fra mangaches e gallinazos. E c'era anche la "casa verde", il postribolo della città, costruito in pieno deserto, dal quale venivano nella notte luci, rumori e silhouettes inquietanti. Quel luogo, contro cui tuonavano i padri salesiani, mi spaventava e affascinava; passavo ore e ore a parlarne, spiandolo e fantasticando su ciò che poteva avvenire al suo interno. Quella precaria struttura di legno, dove suonava un'orchestra della Mangacherfa e dove i piurani andavano a mangiare, ad ascoltare musica, a parlare di affari non meno che a fare l'amore - le coppie lo facevano all'aria aperta, sotto le stelle, sulla sabbia tiepida - è uno dei miei ricordi d'infanzia più suggestivi. Da lì nacque La casa verde, un romanzo in cui, attraverso lo scompiglio causato nella vita e nella fantasia dei piurani dall'installazione del postribolo, e attraverso le imprese e le peripezie di un gruppo di avventurieri nell'Amazzonia, ho cercato di unire, in una finzione, due regioni del Perù - il deserto e la giungla - distanti e distinte. A ricordi di Piura devo anche l'impulso che mi portò a scrivere diverse storie del mio primo libro: Los jefes (I capi). Quando apparve questa raccolta di racconti, alcuni critici vi ravvisarono una radiografia del machismo latinoamericano. Non so se sia vero: so, però, che i peruviani della mia età crebbero nell'atmosfera di tenera violenza - o tenerezza violenta - che tentai di ricreare nei miei primi racconti. Conobbi Lima quando cominciavo a non essere più un bambino ed è una città che odiai dal primo istante, forse perché in essa fui abbastanza sfortunato. I miei genitori si erano separati e, dopo dieci anni, tornarono insieme. Vivere con mio padre significò separarmi dai nonni e dagli zii e sottomettermi alla disciplina di un uomo severissimo che era per me uno sconosciuto. I miei primi ricordi di Lima sono associati a questa difficile esperienza. Vivevamo a Magdalena, un tipico quartiere di classe media. Ma io andavo a passare i fine settimana, quando ottenevo buoni voti - era il mio premio - a casa di certi zii, a Miraflores, quartiere più ricco, vicino al mare. Lì conobbi un gruppo di ragazzi e di ragazze della mia età con cui divisi i riti dell'adolescenza. Era quello che allora si chiamava avere "un quartiere": famiglia parallela, il cui focolare era l'angolo di strada, e con cui si giocava a pallone, si fumava di nascosto, si imparava a ballare il mambo e a dichiararsi alle ragazze. Paragonati alle generazioni che ci hanno seguito, eravamo arcangelici. I giovani limegni di oggi fanno l'amore al tempo della prima comunione e fumano il loro primo spinello quando ancora stanno cambiando voce. Noi non sapevamo neppure che le droghe esistessero. Le nostre bravate non andavano più in là dall'intrufolarci a vedere film vietati - che la censura qualificava come "impropri per signorine" - o dal prenderci un "capitan" - velenosa miscela di vermouth e pisco - alla bottega d'angolo, prima di andare alle feste del sabato, nelle quali non si servivano mai bevande alcoliche. Ricordo una discussione molto seria che si fece tra i maschi del quartiere - avremmo avuto quattordici o quindici anni - per accertare la maniera legittima di baciare l'innamorata per la matinée della domenica. Quello che Giacomo Casanova chiama sciovinisticamente lo "stile italiano" - o bacio linguistico - venne unanimamente scartato come peccato mortale. La Lima di allora era ancora - fine degli anni quaranta - una città piccola, sicura, tranquilla e menzognera. Vivevamo in compartimenti stagni. I ricchi e i benestanti a Orrantia e San !sidro; la classe media di maggiori entrate a Miraflores e q·uella di minori a Magdalena, San Miguel, Barranco; i poveri a Victoria, Lince, Bajo e! Puente, al Porvenir. Noi ragazzi delle classi benestanti quasi non vedevamo i poveri e neppure ci rendevamo conto della loro esistenza: loro stavano là, nei loro quartieri, zone pericolose e remote dove, sembrava, avvenivano crimini. Un ragazzo dei mio ambiente, se non usciva da Lima, poteva arrivare alla vecchiaia con l'illusione di vivere in un paese di ispanoparlanti, bianchi e meticci, totalmente inconsapevole dei milioni di indios - un terzo della popolazione -, quechuaparlanti e con modi di vita completamente differenti. Io ebbi la fortuna di rompere in qualcosa questa barriera. Ora mi pare una fortuna. Ma allora - 1950 - fu un vero dramma. Mio padre, che aveva scoperto le mie poesie, tremò per il mio futuro - un poeta è condannato a morire di fame - e per la mia "vid!ità" (la credenza che i poeti siano tutti un po' invertiti è ancora molto diffusa in un certo ambiente) e, per tutelarmi contro questi pericoli, pensò che l'antidoto ideale fosse il Collegio Militare Leoncio Prado. Rimasi due anni in
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