Linea d'ombra - anno II - n. 9 - aprile 1985

12 DISCUSSIONE/MANCONI IL''RACCONTO'' DELTERRORISMO Luigi Manconi È un fatto incontestabile che il movimento della dissociazione ha, da subito, affidato gran parte del suo discorso, della sua capacità persuasiva e della sua iniziativa politica al racconto. Il primo documento, quasi un "manifesto", quel Do you remember revolution? del febbraio di due anni fa, sin dal titolo evocava un linguaggio /e11erario, un andamento proprio della narrazione più che della saggistica - dove il do you remember richiama il c'era una volta delle favole (anche se qui usato ai fini di un rovesciamento ironico, non di uno straniamento temporale). Successivamente, la figura del racconto si è affermata come la più rilevante, e frequentata, nel complesso della comunicazione prodotta dalla "popolazione detenuta", e la cosa non stupisce. La rottura con la "cultura armata", infatti, comporta, tra l'altro, due conseguenze: a) la recessione dall'omertà linguistica del discorso delle armi, dal suo "dialetto" circoscritto e autarchico e, dunque, l'urgenza della sua traduzione "in italiano"; del terrorismo parla, finalmente, chi ne ha avuto diretta esperienza; b) l'uscita dalla setta terroristica produce una fortissima pulsione a comunicare con chi non ha fatto parte della setta: "gli altri". Ebbene, se quella "traduzione" e quella "comunicazione" adottano, come si diceva, la figura del racconto, ciò avviene per molti motivi: perché più forte e radicale risulta, anche in virtù del suo linguaggio, la cesura col genere letterario del terrorismo che è (era) esattamente l'opposto, dal punto di vista lessicale, ma anche sintattico: il linguaggio narrativo-descrittivo contrapposto, dunque, a quello didascalico-apodittico. Perché il racconto appare come la forma di comunicazione più efficace per raggiungere una audience estesa. Perché, infine, la struttura del racconto -propria della pratica analitica, della sua logica e del suo ordine interno - ha a che fare, evidentemente, con quel percorso della memoria e nella memoria, con quel procedimento aritroso, con quel "ritrovare" esperienze, condizioni e traumi del passato, altre età e, in qualche misura, altre "vite": tutti effetti che la dissociazione, con ciò che comporta di "metanoia" e di ridefinizione del sé, inevitabilmente produce. Se c'è del vero in quanto finora si è detto, è agevole rintracciarne i segni in molte e differenziate forme di produzione culturale che il carcere ci invia e che ripartirei in tre diverse "correnti": I) la narrativa come specifico genere letterario; 2) la narrativa come espressione del processo di ricostruzione storico-biografica degli anni '70; 3) la narrativa come linguaggio del dibattimento processuale. Della prima "corrente" fanno parte i racconti di Lanfranco Caminiti, presentati da 'Linea d'Ombra" e dal "Manifesto", quelli di Andrea Leoni, Paolo Lapponi e Valerio Morucci (L'idea fissa edita dalla Lerici), e le favole di Giuliano Nari a, che la Cooperativa Manifesto Anni '80 sta per dare alla stampa; ma fa parte, soprattutto, quella sterminata produzione "sommersa", anonima o semianonima che impegna un numero crescente di detenuti (politici, ma anche comuni) e che ha alle spalle una lunga tradizione e, persino, qualche successo editoriale (Ceccherini, Bonazzi). Nella seconda "corrente" troviamo la gran parte dei documenti, individuali e collettivi, della dissociazione: essi hanno, spesso, un andamento narrativo, modulato sulla necessità di ripercorrere eventi della storia e della cronaca che hanno una loro intonazione "epica" - come tali vengono, comunque, vissuti - e percorsi psicologici e soggettivi intensamente "drammatici". A questo "indirizzo" può essere assimilato - con qualche forzatura - anche il libro di Renato Curcio, WKHY (Fatamorgana, Roma 1984). Vi appartiene innanzitutto per ragioni politiche. Certo, Curcio non è un dissociato nel senso convenzionale del termine: non si è mai dichiarato tale, non ha mai fatto parte di quello che è stato il "movimento" della dissociazione, non ha mai mostrato simpatia per esso. E tuttavia, non si può ignorare che la ripartizione interna all'area della detenzione politica non ammette - proprio per l'acutezza e la radicalità dei conflitti che l'attraversano - molte alternative alla polarità della ·contrapposizione pentiti/irriducibili. Per la verità, ne ammette una sola. Che è, appunto, quella della dissociazione. La quale, come dice la sua stessa etimologia, è una condizione che si esprime essenzialmente attraverso gesti in negativo: rifiuto, recessione, autocritica, separazione ... Non prevede, dunque, perlomeno in prima istanza, progettualità e strategia. È questo che consente di riunire sotto l'unica definizione di dissociati comportamenti molto diversi - fin quasi ad apparire come divaricati - e atteggiamenti che pure, soggettivamente, rifiutano quella definizione. E infatti, se consideriamo attraverso un procedimento in negativo la posizione di Curcio, non si possono avere dubbi sulla sua "dissociazione": non rivendica il suo passato (anche se non lo abiura), non afferma una qualche continuità tra esso e il suo presente, né una sua proiezione in una strategia futura; non ripropone la lotta armata come strumento di emancipazione né come mezzo di difesa: per meglio dire, non ne parla affatto. Il che equivale né più né meno che a una separazione netta e radicale e, fino a prova contraria, irreversibile dalla propria esperienza precedente, e dalle motivazioni politiche e teoriche che la determinarono. Equesto significa, appunto, dissociarsi. A ciò corrisponde, in Curcio, una forma letteraria che non è quella del saggio politico, né dell'analisi sociologica o politologica, né - tantomeno - del pamphlet polemico del programma di lotta o del progetto strategico: ma è, appunto, quella del racconto. Un racconto dove la trasgressione sintattica, non solo nelle sezioni in versi, si rifà più a Nanni Balestrini che ad Alain Robbe-Gillet, e dove la riflessione saggistica, quando c'è, ricorre più alla scrittura di Baudrillard (citatissimo) che a quella di Canetti (citatissimo anche lui). Ne risulta un linguaggio misto, complesso e a più strati - del cui valore letterario non spetta a me giudicare - che racconta un viaggio (cui corrisponde un ripensamento molto ampio, e per certi versi assai radicale) nella politica e nella cultura del minoritarismo di sinistra del nostro paese, e nei suoi "punti di catastrofe". Dentro quella scrittura gonfia, si aprono degli squarci improvvisi, che introducono drastiche rotture di linguaggio e di genere, dove la presenza del protagonista, WKHY, diventa più palpabile e fisicamente avvertibile: sono i versi d'amore delle ultime venti pagine; sono le righe sul sesso ("Nella sua

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