94 INCHIESTA/CORRIAS di cinema, televisione, giornali, editoria, teatro. La figura, prima unica e solitaria di intellettuale, dello scrittore, ha perso potere e importanza e ha abbandonato la propria "storica" funzione di rappresentatività sociale. Alle stars, alle singole e rare individualità che riescono ad emergere e a brillare (l'eccezione nell'indifferenziato comune) si oppone, così, una massa di scrittori, autori, semianonima. L'ultimo tentativo di risolvere il conflitto, tra mezzi di comunicazione di massa e letteratura, a favore della letteratura è stato poi messo in atto, durante tutto l'arco del novecento, dalle avanguardie storiche, che hanno teorizzato la possibilità di praticare modi di comunicazione diversi da quelli di massa, più specifici, indirizzati, cioè, verso la sperimentazione linguistica. Il risultato si è rivelato l'esatto contrario dei presupposti di partenza: invece dell'acquisizione di ulteriori competenze, vi è stata la sottrazione di significati, l'impoverimento del complesso della comunicazione letteraria a favore della invenzione linguistica; questo ha significato, nel caso del romanzo, la perdita della facoltà di narrare, di raccontare, con la conseguenza di una ulteriore separazione dall'esaurito e stanco lettore. Il medium televisivo è oggi indubbiamente il centro della comunicazione: i serials trattengono, impegnano lo spettatore offrendogli nella ripetizione le modalità archetipiche della favola e testimoniando così la presenza di esigenze e di bisogni di narrazione. Il romanzo che ha visto negli ultimi anni la propria riconversione al "narrativo", il passaggio dall'informale al formale certamente non può pensare di sottrarre spettatori ai serials, ma può ugualmente, attraverso la narrazione, attraverso la sua capacità di affabulazione, essere produttore di immaginario e alilmentarne e sostenerne il fondo mitico che ne è alla base. Questo, se non elimina completamente il rischio di morte, certamente favorisce un possibile modo di vita per la letteratura. 4) Se la mia generazione esiste, non me ne sono accorta, e non credo per personale distrazione: forse non ha trovato ancora i propri storiografi, né essa stessa si è autopromossa e resa visibile in quanto tale. Mi stupisce sempre molto comunque sentirla chiamare "giovane" (come giovani sono stati quasi fino a ieri gli attuali quarantacinquenni-cinquantenni). Gioventù prolungata e assenza di identità collettiva mi sembrano gli aspetti di un unico fenomeno. Le difficoltà oggettive (di pubblicazione e di riconoscimenti se non si è già "grandi firme") funzionano infatti da ostacoli e da barriere non solo dal punto di vista del ricambio generazionale ma anche come precisi limiti al rinnovamento delle forme letterarie, al rinnovamento del, chiamamolo così, patrimonio genetico della letteratura. 5) La caratteristica di "freddo" per la narrativa mi fa venire in mente uno stile asettico, frigido, senza polpa, assassino del proprio contenuto. E, ancora, sempre "freddo", comporta un'idea del romanzo come forma depurata, senza nessuna implicazione conoscitiva, a cui è sottratta la passionalità che può essere di un linguaggio in letteratura. Queste sono per me le due opposte interpretazioni del "freddo". Ma io preferisco il "caldo" cioè una letteratura di genere (con una storia gialla, rosa, avventurosa, epica drammatica ecc... ), dotata di un suo modo di raccontare. Il pozzo dei sentimenti non è necessariamente un luogo dove di sprofonda o dove abita la "melma" dei buoni sentimenti. Esiste un modo di narrare che richiede ed esige identificazione per il lettore ma che è anche pathos, forza, intensità: è la capacità del romanzo di mettere le ali della commozione mantenendo vivi gli artigli dell'intelligenza creativa. Roland Barthes con una delle metafore per lui più consuete aveva scritto, all'inizio degli anni settanta, che l'emozione nasce da un'immagine di 'turbamento' e voleva dire che aveva origine dalla scissione, dalla frattura del senso e del significato. Al contrario, oggi forse si potrebbe affermare che l'emozione dovrebbe prendere vita e nascere da una sutura, da una ricomposizione proprio del senso e del significato. PINOCORRIAS 1) Vorrei che prima di tutto potessimo intenderci su cosa significa scrivere. Al proposito ho alcune opinioni che giudico (senz'altra pretesa) strettamente personali. Scrivere significa: riorganizzare pensieri, fatti, gesti in una doppia direzione, dall'esterno verso l'interno e dall'interno verso l'esterno. Questo trasferimento avviene attraverso le parole. Le parole sono legate tra loro da un ordine che apre e chiude infinite possibilità. La scrittura le rintraccia. Utilizzando l'ordine inerte che lega tra loro le parole, crea un movimento, delle oscillazioni che hanno il loro limite nel silenzio, cioè l'impossibilità di dire, il vuoto. La narrazione inizia un attimo prima. Per questo le "prime parole" di una storia conservano quasi sempre quell'affascinante instabilità che dà la vertigine. 2) Ogni istante dalla vita di un uomo (o donna o bambino) è stato riscritto migliaia di volte e questo non ha alcuna "spiegazione"logica. Di solito si sente dire: la scrittura è un modo di comunicare con sè e con gli altri; (questa frase può essere complicata fino a raggiungere un discreto numero di sfumature o varianti: comunicare attraverso di sè, agli altri; comunicare attraverso gli altri, con sè stesso; comunicare, nonostante gli altri, con sè stesso, ecc.) È tutto vero. Nel mio caso aggiungo alcuni buoni motivi: la curiosità, il divertimento, la pretesa di avere qualcosa da dire, l'incanto di fronte a una pagina scritta, l'eccitazione di fronte a una pagina bianca. Volendo potrei aggiungere altrettanti "cattivi" motivi, tutti facilmente immaginabili. Mi asterrò dal farlo. 3) Per chi scrivo. Le idee per un racconto o un libro, crescono molto lentamente. Per quel che ne so inavvertite come vegetali. Non ci sono destinatari, ancora, solo delle idee senza spigoli, senza incastri tra loro. È solo iniziando a lavorare sulle parole che spunta sempre qualche faccia cordiale, o risentita, o interrogativa. Ho bisogno di immaginarmi un lettore, mentre sto scrivendo, le sue possibili reazioni mi incuriosiscono e mi guidano. Dato che i miei primi lettori sono gli amici (nel senso forte del termine), le belle facce che mi fanno compagnia sono le loro. 4) Non so quanto abbia senso dire oggi se si faccia parte oppure no di una determinata generazione. La velocità di comunicazione delle esperienze è talmente rapida, ricca di dati, testimonianze, informazioni, che le generazioni (le ultime intendo, a una delle quali, anagraficamente, appartengo) finiscono per assomigliarsi tutte. Comunque è vero che esistono anni "cruciali" che hanno segnato, se non proprio una "generazione", certo una consistente minoranza che li ha vissuti con una grande disponibilità emotiva. Questo vale per il '68 e il '77. Il '77 ha liquidato molta della falsa coscienza che si era solidificata dopo il '68 proprio in quel ceto (politico e anche generazionale) che ne era stato protagonista. Ha rotto con i conformismi della politica, con l'occultamento delle emozioni, con la rimozione dei sentimenti, con l'ossessione del partito e del potere. È inutile dire delle degenerazioni che successivamente quel movimento ha prodotto. Personalmente il '77 mi ha dato più di quanto mi abbia tolto. E se questo significa qualcosa, allora dirò: ho (credo di avere) un'infinità di cose in comune con chi ha vissuto quegli anni e ha trovato la forza (cioè la disponibilità) per superarli. 5) Non si può scrivere nulla se non passando attraverso sé stessi e le proprie esperienze. Ogni personaggio, situazione, tonalità, indipendentemente dal risultato del testo,
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