Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

88 SCHEDE/CINÈMA grande e lento, maestoso. È una storia in fondo privata e non grande a cui il regista, che conosce i modi della costruzione epica e lirica, dà dimensioni che sono state definite monumentali. È vero; ed è così perché, come è per qualche monumento, vi si sintetizzano memorie collettive. Vi si trovano forse tratti delle memorie private e generazionali di Leone, prima che di Noodles. Si tratta allora di più storie parallele, di cui una sola esplicita e in cui si metaforizzano le altre. A quella di Noodles si agganciano le immagini, simboliche; le altre, più allusivamente, sono agganciate dalle melodie nostalgiche ed evocative della colonna sonora, con Amapola su tutte (e il suo utilizzo nonostante che sia posteriore al 1925ne conferma il valore non di datazione storica, come è per Yesterday, ma di atmosfera). Infine, il Noodles-Gatsby del "sogno d'amore" di una notte in riva al mare con Deborah-Daisy: punto di fusione per lui di memoria e desiderio, di sogno e delusione; ma di nuovo anche, per generazioni come quella di Leone, grande metafora di una stagione dei sentimenti. Quello di NoodlesGatsby diventa così il "dramma di tutti" recitato in grande, pavesianamente, nel "gigantesco teatro del!'America". Dunque, e infine, perché l'America. Una scelta a suo modo logica, se non obbligata. La crescita dei mass-media in questo secolo è stata non solo espansione di forme, ma anche di contenuti, diventati modelli e miti transnazionali e transculturali. Con gli Stati Uniti che, dagli anni Venti in poi, hanno esportato se stessi. La tradizione occidentale dell'epica, da Omero in avanti, è stata ridotta, reinventata nella mitologia western e riesportata in tutto il mondo. E il film si è sostituito alla grande narrazione scritta e letta: decadute sono le capacità di memoria nel nostro tempo e più brevi i tempi di consumo. L'epica diventa dunque cosa "da film", western in primo luogo, poi i derivati gangsteristici e guerreschi. Generi che sono i più tipicamente americani. Sergio Leone, che ama la vena epica, fa quindi film "americani", perché l'America è il luogo del mito e dell'epica del nostro tempo. Certo non lo è solo per le ragioni per cui lo fu la Grecia di Omero. Gli Stati Uniti sono diventati i depositari dei nuovi modelli di organizzazione della mitopoiesi, epica e no, nella cultura di massa del nostro tempo anche per la dominanza che hanno i suoi capitali e i "suoi" mass-media, con le loro strutture proprietarie, funzionali e distributive, i loro tempi, le loro regole produttive. Lì, per la prima volta, la produzione delle grandi simbologie del tempo è diventata un fatto industriale. Nonostante i tempi e i diffusi segni contrari non è però così automatico identificarsi col mucchio di quattrini. E magari è anche per questo che i film pur "americani" di Leone sono tutti in definitiva distaccati quanto basta dagli stereotipi per rivelare - con l'ironia o la nostalgia - la discrepanza del "fabbro" nella fabbrica del mito. LACARMEDNIROSI Alberto Jona Ogni approccio filmico al melodramma solleva ogni volta discussioni e problemi sulla possibilità o meno di tradurre un linguaggio artistico in un altro, con concezioni di tempo, spazio e verosimiglianza che puntualmente si scontrano. Quello che interessa a noi qui, è di rintracciare le linee interpretative su cui si è mosso Rosi per quanto riguarda la Carmen, e di delineare il rapporto che nasce fra immagine e musica. L'interesse primo di Rosi, avvicinandosi a Carmen e a Bizet, è stato quello di creare i colori della Spagna, quella dei volti bruciati dei gitani, una Spagna di afa, di colori stemperati dalla luce abbagliante del sole, la Spagna bianca di Ronda, del quartiere di Triana; una Spagna violenta, intensa, che Rosi ha colto e filmato splendidamente, cruda e asciutta. E questo è il pregio più grande del film, ma anche la sua problematicità. Rosi, partendo dall'indubbio "preverismo" dell'opera, ha ambientato Carmen in una Spagna reale, non ponendosi il problema, o risolvendolo a priori, se fra la Spagna di Bizet e quella di Siviglia e Ronda ci fosse identità, vicinanza oppure no. La Spagna che Bizet crea musicalmente è una Spagna immaginaria, come d'altra parte è ovvio per una cultura come quella francese della seconda metà dell'ottocento, che guardava al folklore con interesse più che altro coloristico ed esotico. Una visione della Spagna, dunque, in parte oleografica, in parte coreografica e folkloristica, più vicina a Toulouse-Lautrec che a Ronda, una Spagna fatta di inantillas e di ventagli per turisti, tutta colorata, estroversa ed estrosa. Si forma così uno iato fra la pur belle immagini del film e una musica spesso vitalistica e "sportiva" (pensiamo all'ouverture o ai couplets di Escamillo) che si adatterebbe meglio agli sgonnellamenti e ai colori di un Moulin Rouge; quasi Rosi avesse scambiato il realismo psicologico (che fece gridare allo scandalo i critici francesi del 1875) con cui Bizet descrive situazioni e personaggi, i loro smarrimenti e le loro aggressività, con un ,, ,, ..,.. realismo d'ambiente. Questo non vuol dire che Rosi abbia stravolto Carmen, ma ha provocato attriti più o meno forti fra immagini e musica e in particolar modo nelle scene di massa. Certamente questo è il problema di fondo di ogni film d'opera, problema che solo Bergman con Il flauto magico di Mozart era riuscito a risolvere con esiti felicissimi, e solo in parte Zeffirelli nell'atto della festa a casa di Flora, in Traviata, anche se la Traviata di Zeffirelli è più teatro filmato che film d'opera. Tornando a Rosi, la sua attenzione per l'affresco, per l'aspetto corale della vicenda fa sì che i personaggi, e soprattutto Don José. il personaggio più lirico e d'introspezione, vi si disperdano dentro, perdendo di forza; e pensiamo per esempio a quando Carmen, finita l'habanera, getta il fiore a José. La scena è cinematograficamente bella ma priva di quell'intensità e di quel fascino che la musica di Bizet inequivocabilmente richiede isolando di colpo i due protagonisti, soli l'una di fronte all'altro, nel loro primo duello, momento che in Rosi invece si perde perché appiattito nell'affresco. Tuttavia il film è sostanzialmente rispettoso nei confronti della musica e vi sono alcuni momenti e alcune idee assai felici, per prima la comprensione della luminosità e della solarità della musica di Bizet, e poi il finale dell'opera, sorta di appassionata e disperata corrida fra José e Carmen, l'uno nero come toro, l'altra rossa come cappa di torero; ma anche certi sdilinquimenti di Micaela tutto sommato funzionano perfettamente per un personaggio così Julia Migenes-Johnson in Carmen (distrib. Gaumont).

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