Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

zie ad essa che oggi può permettersi contemporaneamente di girare Co/ton Club, produrre Mishima e altri due film, vendere ma non liquidare gli Zoetrope Studios, prepararsi a dirigere un film su commissione con Debra Winger e infine realizzare in cinque giorni un piccolo film di un'ora, un esperimento tecnico, un gioco di illusioni visive, tratto dal racconto di Washington Irving Rip Van Winkle, interpretato da Harry Dean Stanton e Talia Shire, e destinato alla televisione e alle videocassette ... L'IMMAGINARIO AMERICANO DISERGIOLEONE Bruno Cartosio A giudicare dal suo ultimo film C'era una volta in America si direbbe che, nei confronti dell'America, è finita in Sergio Leone la fase dell'ironia e subentra quella della nostalgia. L'ironia dei suoi western era quella di uno sguardo comunque benevolo, ma era anche un modo "minoritario" di rapportarsi senza rimanere schiacciato al maggiore sistema mitologico occidentale di questo secolo. Fu tuttavia anche il cuneo che altri usarono per aprire nel sistema la falla del ridicolo, e fu la fine del western come genere cinematografico. Da allora si apre per Leone un'altra frontiera, urbana stavolta. E senza ironia. La sua sarà anzi un'operazione di desiderio. C'è in questo una corrispondenza con le nuove immagini del fascino metropolitano che l'America ha prodotto in questi ultimi dieci anni in cui ha reagito alla crisi di quasi tutta la sua mitologia nazionale. Eppure dal nostro punto di vista, di qui, può sembrare un ritorno indietro, quasi a scoprire un'altra. volta un'America "pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente" . L'America desiderata di Leone è sottile, è fatta di facciate senza profondità e senza didietro, come sono tante delle immagini mass-mediologiche attuali. Che risultano spesso piatte, per l'effetto di schiacciamento che danno i teleobiettivi. Della New York invernale di Stieglitz, piena di fumi e vapori, citata in un'inquadratura, rimane nel film la presenza diffusa e ricorrente di vapori: ma mentre nel grande fotografo erano quelli vivi della città-fucina ("City of ambition", la chiama in una foto analoga ma diversa da quella citata), in Leone sono i vapori della memoria. La distanza è quella che separa l'oggetto dal desiderio nostalgico dell'oggetto. La dimensione nostalgica, della memoria e del ritorno, è dominante in C'era una volta in America. Vive tutta sulla pelle e sotto la pelle di un grande De Niro-Noodles, l'unico nel film ad avere carne ed ossa, ad essere attraversato dal pensare (e quindi dal ricordare). Anzi, è questa sua peculiarità che conferisce gravità ai suoi gesti e lentezza al suo parlare. De Niro è l'unico eroe del film; il solo che ha la capacità della solitudine e della sofferenza, che ricerca una verità, che è depositario della memoria. È anche quello che Roberl De Niro in C'era una volta in America (distribuito dalla Titanus). In alto: Sergio Leone e Darianne Fleugel durante la lavorazione del film. SCHEDE/CINEMA ritorna. De Niro è Noodles perché il filo del racconto è quello della memoria di Noodles stesso e perché nel racconto di memoria è sempre il protagonista che emerge ingigantito rispetto allo sfondo. L'unico che vive al di qua dello schermo piatto su cui si muovono tutti gli altri, silhouettes, come le ombre cinesi. La memoria di Noodles e il discorso di Leone coincidono. E infatti nel film c'è il minimo indispensabile di riferimenti esterni o "storici". Del resto il titolo è programmatico, Leone non ha l'intenzione o l'ambizione del racconto storico. Per questo c'è anche il minimo di riferimenti culturali. I ragazzi sono ebrei ma potrebbero essere qualsiasi altra cosa e il loro quartiere qualsiasi quartiere. Le scritte, i nomi, le barbe e gli scialli cerimoniali, la yarmulka di Fat Moe piccolo, la pesah e perfino il Cantico dei cantici sono "accidenti", pure funzioni scenografiche. Leone non è Francis Coppola. In un certo senso, e senza offesa per nessuno, sia C'era una volta in America, sia Co/ton Club possono essere presi come due diverse note a piè di pagina del Padrino: come dire, c'era anche questo. È tra l'altro una strana casualità che gli anni siano gli stessi, che ci siano gli stessi teatrini cinesi, che sia sempre New York (e non la Chicago che nel folklore statunitense e anche nel cinema è sempre stata il focus primario del filone gangsteristico) ecosì via. E però, detto questo, sono anche chiare le differenze di mano. Anche nello spazio di una nota Coppola mira al quadro storico. Lo fa con mano leggera e toni un po' da "storia popolare del crimine" alla Herbert Asbury, ma senza mistificare i "documenti" che usa. Le cose più interessanti sono comunque su altri registri: l'aver girato un film di masse tutto in interni e l'aver messo in scena un numero di neri mai visto in un film "bianco". (Marginalmente, nel film bianco di Leone l'unico nero è quello che lava il pavimento alla stazione nel 1933.) Le Americhe etniche di Coppola in Leone non ci sono. Questo non è né bene, né male; è semplicemente così che stanno le cose. Ma dunque che America è quella di Sergio Leone? È l'America immaginata, prodotta per photokit con i frammenti di mille altre fantasie. È l'America dell'immaginario che si nutre di se stesso. Per dirla con Blaise Cendrars, è l'America "parola magica". Anzi, come sempre Cendrars scrisse sessant'anni fa dell'Ovest mitico di cui "tutti, tutti, tutti parlano", America è la "parola immensa che conferisce maestosità ai discorsi". E infatti il racconto di Leone fluisce 87

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