Una scena della commedia di Andreini nella regia di Ronconi al Teatro di Roma. astratto e vertiginoso gioco d'incastri, con segmenti di verità incavestrati l'uno nell'altro, di volta in volta confermati o smentiti dalle giustapposizioni e dalle combinazioni. E ne risulta un'esaltazione del teatro censito, nel suo illusionismo, come crogiuolo in cui si distilla la realtà, in cui, per citare ancora Giovan Battista Andreini, "è conceduto toccar al vivo i fatti più occulti delle cose''. La realtà, allo spettatore seduto in platea, si offre su tre livellidiversi: uno, di fatto assente, extrascenico se così si può dire, in cui si suppongono essere accaduti gli eventi che è compito del teatro verificare; un secondo, quello della rappresentazione cui si è venuti ad assistere, e che è il piano dell'inganno, quello in cui i personaggi "fingono" di essere altro da quello che sono; un terzo, quello delle commedie in commedia, che smascherando, grazie a una nuova finzione, il secondo dovrebbe restaurare la veridicità del primo. Ogni individuo ha un nome diverso in ciascuno dei tre livelli e passando dall'uno all'altro cambia continuamente di identità. Ma a mano a mano che le agnizioni successive si rovesciano a pioggia sulle spalle dei personaggi, questi, anziché meglio definirsi, perdono di consistenza, si assottigliano, come non avessero altra possibilità di esistere fuori dalla giostra dei nomi. E non è un caso che su questi l'autore intessa barocchi giochi di parole, etimologie bislacche, rimandi fonici, tessendo così per le sue inconsistenti creature un fantasmagorico sfondo linguistico. D'altronde la vertigine del vuoto è tratto tipicamente barocco; e così l'intrecciarsi e il rifrangersi a specchio delle vicende, e la molteplicità delle prospettive e il conflitto tra verità e menzogna (la verità sospetta!); e del teatro barocco è infine lo sperimentalismo linguistico, qui addirittura esasperato fino al delirio di un'intera scena in latino, a fronte del quale la Spagnolas del Calmo è testo bembiano. Ma tutto contemporaneo, e grande merito dell'interpretazione ronconiana è averlo così limpidamente delineato, è il senso di entropia, di realtà che sfugge dissanguandosi, che coglie lo spettatore man mano che il lavoro procede. Andreini poteva ancora credere che il palcoscenico fosse il supremo alambicco in cui distillare la verità; Ronconi ne è meno certo. È una verità vagotonica quella che affiora nella sua messa in scena, assai più vicina a noi che a quel nichilismo controriformistico, sempre pronto a rovesciarsi nel proprio contrario, a risolversi nell'apologia di Dio, che solo può colmare il vuoto mondano (ed è, oggi, la tematica di Testori). Il regista monta dunque, conseguentemente, uno spettacolo algido e malinconico, ambiguo, colmo com'è di nostalgia per l'antico potere del teatro che si sa ormai svuotato ma cui non si sa rinunciare, perché fuori del teatro non c'è speranza: il palcoscenico è una zattera periclitante nel gran mare della menzogna SCHEDE/TEATRO e dell'inganno e della follia universale, ma è anche una delle poche possibilità di precaria conoscenza e provvisoria salvezza ancora concesse. Abbagli, illusioni, fraintendimenti sono· registrati con mesto disincanto, continuamente correlati a un nocciolo di rassegnata consapevolezza. Da qui prende vigore il fascino struggente di certe immagini, quali l'arrivo dei comici su una barca che scivola sulle tavole del palco come su un immobile specchio lagunare, o l'addossarsi finale dei personaggi quasi l'uno sull'altro, simili a naufraghi su uno scoglio che lentamente si inabissa. Visioni di suggestiva pregnanza, che diventano emblemi del teatro oggi e, più in generale, di un destino comune. La lucidità che presiede alla scelta degli elementi scenici carica dichiaratamente di rimandi allegorici alcuni oggetti: basti citare i grandi telai con gli arazzi tessuti a metà che talvolta circoscrivono, talvolta partiscono il campo dell'azione; funzionali, dunque, e pienamente giustificati sul piano semantico dall'essere Rovenio un membro della nuova borghesia mercantile, ma che alludono anche, nella incompiutezza dei manufatti, agli erramenti di una verità sempre inafferrabile nella sua interezza. La recitazione è volutamente debordante, manieristica e sovrattono. Ronconi ha chiesto ai suoi interpreti (con esiti di notevolissimo spessore nella Moriconi, ma anche in Roberto Alpi, Pino Micol, Luciano Virgilio e nel sorprendente, cesellato Warner Bentivegna, più di superficie in Giovanni Visentin, generoso ma troppo immedesimato) di svuotare dall'interno l'intenzionale amplificazione, giocando in continuazione sul registro ironico: ne risulta assecondato il contraddittorio e vanificante alternarsi delle varie maschere con cui ciascuno recita la propria vita, e lo spettatore si sente costantemente sospeso tra il riso divertito e la vertigine. Quanto più è sfuggente e ingarbugliato lo spettacolo della realtà e della finzione, tanto più rigorosa e geometrica è l'articolazione dello spazio. Anch'esso è in continua metamorfosi, proiezione fisica delle sequenze labirintiche del testo, ma secondo linee di asciutta essenzialità pur nella grandiosità dell'insieme. Su un palcoscenico allungato fino a divorare mezza platea, nel cubo nudo del palco alte torri si chiudono a liscia muraglia o si allontanano dietro le quinte e, girando sul loro asse, creano successivamente scene diverse: una stanza di locanda, un cortile, palchetti di teatro che moltiplicano illusoriamente quelli autentici della sala (quest'ultima soluzione con esiti apprezzabili nel vene83
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