Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

80 SCHEDE/SAGGISTICA la o di mandato, prima religioso e poi politico, che occorreva giustificare ideologicamente in un insieme di codici, e quindi di segni, di cui sono impregnate le fonti del tempo. Anche i testi sono sistemi di comunicazione dopo tutto; i segni che offrono hanno anche loro una 'storia esemplare' che andrebbe ricostruita. Anche sui loro silenzi. L'IRONIAE LADOPPIEZZA Mario Barenghi Della letteratura, dei libri e di chi li scrive non è davvero il caso di fidarsi. Basta dare un'occhiata alla nostra libreria, scrive Guido Almansi nel suo ultimo libro (Amica ironia, Garzanti, pp. 242, L. 16.000) per accorgersi di quanto perfino le indicazioni di genere contenute nei sottotitoli possano trarre in inganno: Tristram Shandy, 'a nove!'; Les caves du Vatican, 'une sotie'; A Gunjor Sale, 'an entertainment'. Può darsi che questa osservazione non sia sempre valida in generale; ma, che lo sia o no, si attaglia perfettamente all'opera che la contiene. "Uno studio ironico su alcuni aspetti dell'ironia", la definisce l'autore nell'Introduzione. Si tratta, naturalmente, di una menzogna. Non è pensabile che possa essere altrimenti. Infatti, come scrive più avanti Almansi (concorde in questo con parecchi studiosi del fenomeno, non esclusi quelli che egli disistima), l'ironia non può dichiararsi senza distruggersi: "se si annuncia l'arrivo della signora ironia con squilli di tromba e cartelli indicatori, la .strada sarà breve, ma il profitto e il diletto saranno minimi" (pag. 86). L'ironia proclamata - quella "fissa, stabile, esplicita, non equivoca: la specie più bassa e volgare del genus ironico" (pp. 16-17) - costituisce il bersaglio polemico di tutto un libro, che di aggressività e di verve certo non manca, e che d'altronde non si perita di proclamarsi esplicitamente ironico, per argomento, spirito e vocazione: al punto di tessere gli elogi di un ipotetico "villaggio dell'ironia", preferibile a ogni altro ideale utopico. Vero è che l'ultima pagina ospita una Palinodia, in cui l'utopia del villaggio ironico descritta nell'Introduzione viene rifiutata come "un inferno, un intollerabile vespaio( ... ) un paesino siciliano popolato esclusivamente dai personaggi delle novelle di Pirandello". Ma poi così conclude: "Quando scrivevo l'Introduzione ero ironico, mentre in questa palinodia sono serio. O viceversa". Quindi è ironica anche la pretesa di essere ironico, come la smentita di tale stessa pretesa: e sempre in modo affatto esplicito. Ma nessun mirabolante gioco di specchi, con tutto questo, nessuna serie vertiginosa di rimandi all'infinito che d'improvviso s'apra sotto i nostri piedi. Semplicemente, se tutto è ironico è come se nulla lo fosse: esattamente come nelle opere troppo ansiose di dimostrarsi fantastiche "non c'è più niente di insolito perché tutto è insolito" (p. 79). L'attore, che deve recitare una battuta ironica ma teme di essere frainteso, premette: "Guardate che sto per essere ironico", e così facendo, distrugge l'ironia (cfr. p. 16); poi fa una smorfia che ironizza quella stessa frase; e non resta motivo plausibile per ritenere che il meccanismo non si ripeta pari pari, cioè che l'ironia e la metaironia non facciano l'identica fine. Ma non è il caso di preoccuparsi, giacché, come si diceva all'inizio, questo non è un libro sull'ironia. Piuttosto converrà notare, per inciso, che sono molti i modi in cui l'ironia può esser resa inefficace. È dell'ironia come del sublime: basta eccedere sia pur di poco, e subito si guasta; ciò che un attimo prima sfiorava il culmine della maestosità e dell'arguzia si fa d'un tratto senza rimedio stucchevole. Si vorrebbe poter dire che il senso della misura assiste ovunque Almansi con eguale felicità, ma francamente non è possibile. "Conoscevo un giovane che aveva una ragazza con un meraviglioso taglio d'occhi orientale, lo strabismo di Venere e un delizioso difetto di pronuncia; e le diceva: 'Sei strabica, dislalica e mongoloide'. Una galanteria che mi procura un brivido di godimento (e che avrà fatto fremere di piacere la ragazza), come un Éventail di Mallarmé". L'aneddoto non manca di grazia; ma il commento è un ingombro. "Bisogna essere irrigorosi. Necessitiamo quindi di una nomenclatura fluttuante, di un vocabolario critico ambiguo (quale piacere mi procura il rischio di avanzare una premessa così scandalosa)" - eh, via! Questa non è ironia, e nemmeno provocazione, ironica o meno: è soltanto leziosaggine. Ma ancora, quanto il libro sia ironico, importa fino a un certo punto. Quello che conta è che non tratta dell'ironia, almeno non in modo precipuo. In realtà, anziché un pamphlet sull'ironia (come finge di voler credere), Almansi ha scritto un Elogio dell'ambiguità; o se si preferisce, una Apologia della menzogna nell'arte. E allora non è il caso di soffermarsi su considerazioni ovvie: per esempio, che non sempre l'ambiguità è ironica, anche se spesso si picca di esserlo; e che l'ironia non sempre è ambigua: aveva ben ragione Hans Castorp a esclamare che un'ironia degna di questo nome deve prestarsi almeno per un attimo all'equivoco, ma di qui a intendere che a un massimo di equivocità corrisponde un massimo di ironia ., ce ne corre, .e per una distanza superiore a quella che separa un trattato da un pamphlet. Così, a proposito, passano in secondo piano anche i virulenti attacchi contro Wayne C. Booth, che con A Rhetoric of Irony (Chicago and London, Chicago U.P. 1973) ha cercato di dare all'ironia in letteratura un inquadramento di tipo sistematico: correndo certo tutti i rischi del caso, dalla pedanteria allo schematismo alla scarsa concludenza -perché nessuno nega che l'ironia sia un fenomeno complesso, per buona misura riluttante all'analisi, ma lo stesso si potrebbe dire per la maggior parte delle cose che meritano di essere analizzate. Ciò rientrava, insomma, nelle regole del gioco; e del resto gli esiti del libro di Booth (jair play a parte) sono tutt'altro che privi di interesse critico e teorico. La questione davvero importante riguarda l'idea di letteratura che guida le argomentazioni e le polemiche di Almansi: un'idea che inclina a identificare la letterarietà stessa con un impalpabile quid di indefinitezza e di enigmaticità. Nel libro è svolta un'eulogia ininterrotta di tutto ciò che è (o pare all'autore) indefinito, ambivalente, indecifrabile: il pregio maggiore di un'opera è visto consistere nella doppiezza ("la santa doppiezza"), nella sua capacità di mentire, o meglio di lasciare il lettore in dubbio se essa stia mentendo o no. È questo il punto sul quale deve impegnarsi il nostro giudizio. Chi scrive, personalmente, dissente con fermezza: convinto com'è che l'ambiguità, la polisemia, la menzogna, per non dire dell'ironia o della metafora, sono sì una componente di rilievo nel discorso letterario: ma non più di quanto lo siano in tante conversazioni tra innamorati (coniugi, parenti, affini, coinquilini ... ), nelle dichiarazioni di un candidato alla Casa Bianca o di un ministro degli Esteri, nell'articolo di un quotidiano o in uno spot pubblicitario. Il villaggio dell'ambiguità è così poco esotico e uto~ico che lo troviamo disseminato ovunque. Ma, se ci è risparmiata la fatica di andarlo a cercare, vale non di meno l'avvertenza di non idolatrarlo, né demonizzarlo, né in letteratura, né altrove: e questo non tanto per ragioni di principio (che pµre, xolendo, si potrebbero invocare) bensì di utìlità e razionalità. Le stesse, grosso modo, ché suggeriscono di distinguere tra· equivocità e ironia, perché non vale la pena di scomodare due parole per una stessa idea; o di non confondere il concetto di eiron con quello di alazon, e così via. Resta il giudizio complessivo su Amica ironia; e qui sono costretto a una breve digressione. La letteratura, si sa (e la critica letteraria di riflesso) è satura di valori, a ogni

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