Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

a proposito di luoghi ·comuni, anche un po' volgari, è una descrizione di Liza che culmina negli "emisferi sodi del suo sedere". Anche per ciò che concerne la costruzione narrativa, credo che si debbano vedere pregi e difetti con attenzione. È senza dubbio positivo il fatto che nell'attuale panorama della narrativa italiana, persa solitamente dietro storie inesistenti, puri pretesti per il bello scrivere, riflessioni estenuate sul ruolo dell'intellettuale e sulle sue crisi esistenziali, vi sia chi, come De Carlo, tenta, sia pure attraverso la metafora, la fantapolitica, di affrontare la realtà, di confrontarsi con i problemi della contemporaneità. Il punto è che, se mai, questa scelta non è tenuta sino in fondo, e probabilmente non era semplice farlo. Così nel corso della narrazione il personaggio del dittatore perde progressivamente di credibilità, diventa, sembra, quasi uno specchio dei dubbi e delle ansie di chi scrive, con una certa identificazione (che appare anche un po' presuntuosa e pericolosa). Né credo si possa affrontare una realtà complessa, stratificata e melmosa, come quella italiana, con troppa superficialità (mi riferisco qui ai giudizi che De Carlo mette in bocca a tutti i suoi personaggi sulla politica nel nostro paese). Non si tratta, sia ben chiaro, di scelte politiche; ma se si vuole riportare la realtà con una certa efficacia, non si può descriverla usando i concetti e le parole del più bieco senso comune. D'altronde è proprio quando De Carlo trasfigura quelle che devono essere state le sue esperienze, non facili, con la realtà, in particolare con "il mondo della cultura", che egli ottiene i risultati migliori. È questo il caso delle pagine dure, fredde, efficaci e spietate su Roma e sui suoi salotti. Qui emerge un piglio personale, una capacità reale di raccontare, che De Carlo pare possedere. Credo che, allora, a conclusione della lettura di Macno si debba trarre un giudizio più aperto su De Carlo. Si debba cioè decidere di seguire con attenzione lo sviluppo di uno scrittore che ha tratti di un'autonoma personalità, ma che rischia di assestarsi, anche a causa, qui sì!, del suo successo, sul livello di una narrativa media, tipo Bevilacqua, sia pure, in parte, risciacquata nell'attualità. Non a caso dalla freddezza e dal cinismo di Treno di panna siamo arrivati alla romantica storia d'amore di Macno. Nel quadro, davvero poco esaltante della narrativa italiana, sarebbe invece assai più utile potere contare su questo autore come su tutti coloro che mostrano segni, sia pure non sviluppati, di novità, di personalità per uno sforzo reale di ripresa di un romanzo di qualità, di una nuova capacità di raccontare. AKÉ,LACITTÀSCOMPARSA Itala Vivan Dai paesi africani di lingua inglese giungono in Europa delle straordinarie produzioni letterarie, che affascinano per la levità inventiva che rivelano e per l'alto grado di organizzazione espressiva che possiedono. Un anno fa venne presentata in Italia l'aerea e incantata narrativa di Amos Tutuola, La mia vita nel bosco degli spiriti (Milano, Adelphi 1983); ora è la volta di Wole Soyinka, anch'egli, come Tutuola, affermato scrittore di cultura yoruba. Aké. Gli anni dell'infanzia (Milano, Jaca Book 1984, traduzione di Carla Muschio) è l'ultimo iibro di questo importante scrittore africano contemporaneo. Wole Soyinka, nigeriano, autore di splendidi testi teatrali - basti ricordare La morte e il cavalieredel re e Danza dellaforesta-, lui stesso attore e regista, è anche eccellente poeta, e il narratore originale, dalla voce inconfondibile, dei romanzi Gli interpreti e Stagione di anomia (tutte opere come il teatro, edite in Italia da Jaka Book). Aké è un'opera a carattere prettamente autobiografico, come lo era stato anche il precedente The Man Died, del 1972, diariodocumento degli anni del carcere, dal quale però si distingue nettamente per modi ed effetti. La storia di sé qui muove dal desiderio di ricreare un mondo, di dare corpo a una memoria. La città di Aké è scomparsa e cambiata, l'infanzia è finita; ma la ritmata, ricca prosa di Soyinka le rievoca. Rinascono così la grande casa e la canonica, le strade e gli edifici della cittadina, che si affollano di personaggi visti nella prospettiva dell'infanzia, con gli occhi di Wole bambino. Il padre direttore della scuola; la madre con la sua bottega; i fratelli, i servi, gli ospiti, popolano il cosmo infantile del protagonista. Il racconto è pieno di humour e di charme, e si dipana naturalmente, insensibilmente, dal periodo delle prime sensazioni a quello della scoperta del mondo, sino a giungere infine al momento dell'affermazione del sé all'esterno della famiglia. Mentre la personalità del bambino cresce e si manifesta, il mondo si allarga intorno a lui; a poco a poco vi fa il suo ingresso la Storia, con gli eventi importanti di ambienti lontani - Hitler, la bomba atomica, la lotta per l'indipendenza della Nigeria - che si riflettono nello specchio convesso del protagonista. Al mondo di Aké si affianca quello tradizionale di Isara, il villaggio paterno, dove SCHEDE/NARRATIVA Wole Soyinka (foto di George Hallelt}. abitano le donne dalle mani tinte di indaco e dove troneggia l'Odemo, il nobile capo che prende sulle ginocchia il piccolo Wole. Qui c'è il nonno dalla testa levigata come il ferro, che lo inizierà all'età adulta praticandogli incisioni rituali sui polsi e sulle caviglie; qui c'è Brother Pupa, che lo porta con sé nei campi dove incontrano un grosso serpente, lo uccidono e lo mangiano. Questo mondo ricorda da presso quello del piccolo Egbo degli Interpreti, con il solenne, cieco nonno-re, le tradizioni e i rapporti familiari ancora vivi ed efficaci, la gerarchia dell'antico potere ancora funzionante. Nell'ultimo periodo della vicenda Aké si amplia arricchendosi del Movimento delle Donne di Egba, delle loro battaglie contro le tasse dell' Alake, il capo locale che amministra il potere reggendosi sugli ogboni. Gli ogboni - uomini facenti parte d'una sorta di consiglio della corona - sono anche membri d'una setta segreta, temibili nella loro solennità: e però grottesco è l'effetto che su di loro hanno le donne insorte, scompaginando la loro ieraticità rituale. Gli ogboni statuari, fissi, appoggiati al bastone del comando, sono simboli dell'antico potere tradizionale e della saggezza che ad esso si rifà, come già lo era Bandele negli Interpreti; ma vengono spazzati via come dal vento allorché scendono in campo le donne battagliere, personificazione dei tempi che cambiano. Qui il tema ricorda l'episodio centrale di Les bouts de bois de Dieu (1960), del senegalese Sembène Ousmane, con lo sciopero del 1947 e la partecipazione delle donne. Soyinka ha una forte capacità mitopoietica, sulla quale si impernia l'organizzazione della sua arte. In Aké ci sono i miti della cultura yoruba, con i suoi spiriti e le sue divinità, le sue credenze e i suoi riti; ad essi si so77

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