Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

76 SCHEDE/NARRATIVA anche dalle scansioni delle battute. Bernhard intreccia, scioglie, riannoda, in un continuo "prestissimo", funzionale e (quasi) melodico. Lo stile è perfetto ma non esanime come nella narrativa, in cui l'autore decisamente abusa di quella ginnastica linguistica che vorrebbe esemplificare una forma di comunicazione invadente ma, al tempo stesso, atrofizzata. Anche le situazioni sono più credibili degli incubi parlati, degli incastri di situazioni irreali di cui consta la maggior parte dei romanzi e racconti. E proprio nel teatro, Bernhard sembra aver trovato la sua arma più diretta. Qui l'autore non corre il rischio di aggiungere alle dissonanze del testo altri livellidi accurata innaturalità: le commedie, più delle opere in prosa, ci mostrano frammenti di mondo che si possono in qualche modo sovrapporre alla realtà, e non una specie di delirio che, nell'assoluto rifiuto di un'oggettiva rappresentazione di tale realtà, intende negarle qualsiasi significato e senso. Ne Il riformatore del mondo (1978; Ubulibri 1982) un vecchio torvo e brontolone pretende di migliorare il genere umano con un suo ambiziosissimo trattamento. L'amore per il paradosso di Bernhard ci presenta il protagonista, però, sotto le vesti di un infermo, convinto che la sua menomazione sia causa del suo brillante ingegno. E pure lo scrittore protagonista di Alla meta, e più ancora l'attore di Minetti (1977; Ubulibri 1984),sembrano statuire l'inesistenza di una via di mezzo tra la genialità quasi sovrumana e il fallimento totale - umano o artistico. In queste parabole teatrali, soprattutto nelle massime sull'inutilità e la ripetitività dell'arte che l'autore mette in bocca ai suoi personaggi, Bernhard vuole irridere la pretesa dell'intellettuale di dominare il mondo. Ma si coglie anche un palese accenno antiaustriaco, evidente, tra l'altro, nelle parole di Bernhard quando critica lo sviluppo sociointellettuale dell'Austria del dopoguerra, i cui personaggi-tipo sono "piccolo-borghesi, dal cervello imbottito di musica, che hanno perso l'abitudine di pensare". Il teatro di Bernhard svela allora un autore che aggredisce le istituzioni, avversa i politici, smaschera realtà poco gradite in Austria, come nel caso della persistenza del nazismo, preso di mira nelle commedie Der Prtisident (Il presidente, 1975)e Vor dem Ruhestand (Prima del pensionamento, 1979).Sembra allora di cogliere gli accenti più sinceri dell'autore, di comprendere che esiste un'alternativa all'amara constatazione fatta da Bernhard stesso, secondo cui uno scrittore non può lasciarsi sopraffare dalla realtà, pena la trasformazione della sua verità in convenzione. EDOPO''MACNO' '? GiorgioStraccali Il giudizio sulla narrativa di Andrea De Carlo (Treno di panna, Einaudi, 1981; Uccelli da gabbia e da voliera, Einaudi 1982; Macno, Bompiani, 1984)mi sembra sia sempre stato falsato, in buona misura, dal successo che i suoi romanzi hanno avuto. Da una parte si è ricercato a posteriori il motivo di una riuscita, facendo ricorso a categorie (post-moderno, visivo, cinematografico, ecc.) così vaghe e allamoda da risultare applicabili a tutto e quindi incomprensibili, o almeno inutili per spiegare il caso specifico. Dall'altra, invece, si è scatenato un certo gusto della condanna, direi morale, dello scrittore più che dei suoi romanzi, così come anni fa si stroncavano i long-playing di tanti cantautori quando questi cominciavano a ottenere un certo successo di pubblico. L'uno e l'altro atteggiamento si sono rivelati in realtà nient'altro che due componenti di quello stesso successoe dell'immagine che De Carlo ha finito per assumere nel panorama della narrativa italiana. Su questa strada la sopravvalutazione (negativa o positiva che sia) è la prima tappa di un cammino inesorabile, seguita dalla superficialità dei giudizi e delle letture sommarie (così almeno mi appare quella di Renato Barilli su "Tuttolibri" che lascia la fondata sensazione, anche nella ricostruzione della trama, di una lettura solo parziale dell'ultimo romanzo di De Carlo. Macno, allora, potrebbe essere l'occasione per una critica più attenta e meno impressionistica, anche perché questo romanzo contiene, accentuati, pregi e difetti di De Carlo, che qui alza il ti-· ro, si scopre di più, rende in qualche modo più agevole il compito del recensore. Brevemente la trama. In un paese dall'aspetto sudamericano, ma che nel corso della narrazione viene rivelandosi come l'Italia, un giovane presentatore, Macno, è diventato l'incontrastato e osannato capo del paese attraverso l'uso abile e spregiudicato dei mezzi audiovisivi. Due giornalisti, un uomo e una donna, nel tentativo di intervistarlo penetrano nel giardino del suo palazzo dove vengono catturati sotto gli occhi di Macno. I due divengono, nonostante lo strano approccio, suoi ospiti per un lungo periodo, via via sempre più insofferente l'uomo per l'inattività in cui vivono gli abitatori della "reggia", sempre più affascinata la donna dalla figura del dittatore, spesso triste e solo. Fra lei e Macno nasce una storia d'amore, che si conclude tragicamente con l'assassinio ,, registrato e sempre insoddisfacente, per l'anniversario della presa del potere. I giornalisti ripartono con la registrazione, preziosa, di un'intervista all'uomo che ha preso il posto di Macno, ma la donna invece di andare a New York, dove l'attende il successo, prende il primo aereo disponibile per una destinazione lontana e ignota. Non tutto funziona in questa storia e in questi personaggi, ma non ce ne accorgiamo subito. Il maggior merito di De Carlo scrittore è proprio questo: la leggibilità, la rapidità della costruzione narrativa, che prende il lettore e lo "costringe" a continuare, ad arrivare in fondo. Forse sta qui, nella rapida successione di fatti, situazioni, oggetti, la "postmodernità" di De Carlo, più che in precise scelte di stile e di scrittura. Anzi è proprio nella qualità della scrittura che appaiono i primi limiti di De Carlo. Vi è qualcosa di affrettato nella sua lingua, come se non fosse tornato a sufficienza sul suo lavoro, come se fosse già preda della nevrosi "di uscire con qualcosa di nuovo" da cui è afflitta tanta parte della narrativa italiana. Ripetizioni, faticose costruzioni linguistiche, neologismi abbastanza urtanti. Facciamo degli esempi: "C'è solo l'ansimio affannato; i clicchettii di fibbie e scarponi"; "lei lo guarda; sniffia". I clicchettii, il verbo sniffiare sembrano provenire dai fumetti senza però dare un senso di nuovo o di diverso, come forse intendeva De Carlo, ma solo di fastidioso. Così come false e mal costruite suonano frasi come: "Tutti sono ben in controllo delle loro voci o dei loro movimenti", "fanno brillare i denti", "Liza si alza in punta di piedi, gli sorride indietro", "dice Liza, lenta di respiro" (queste ultime due, fra l'altro, continuamente ripetute con leggere varianti). E ancora: "fermo sull'orlo di una frase", "lui la guarda indietro: congelato sull'orlo di una parola e di un'espressione", "i vetri scorrol\O aperti" (per dire che si aprono scorrendo). Abbondano poi luoghi comuni come: "il cuore le guizza", "ho visto come soffrivi, poverino", "il loro impegno sembra straordinariamente futile, come un travaso di gocce nel mare". Ancora lasciano perplessi, non solo grammaticalmente,· l'uso di "raso a" (ripetuto fino a "dice Liza rrasoalle lenzuola"), 6 frasi come • "parassitando la gente", "in costa al marciapiede", "un flusso di passeggiatori". Eccetera. Tutto questo non mi pare possa essere definito moderno o televisivo, guanto piuttosto tirato via, quasi sciatto. Due ultimi esempi, particolarmente significativi. Il primo è quello di Macno che compra un cono gelato e poi lo "posa" per terra. Il secondo,

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