62 DISCUSSIONE/SIN IBALDI numerosi storici "di rendere nuovamente accessibili le proprie scoperte a un pubblico di lettori intelligenti ma non specializzati, interessati ad apprendere che cosa abbiano rivelato queste novità in fatto di domande, di metodi e di dati, ma incapaci di reggere a indigeste tavole statistiche, ad aride argomentazioni analitiche, e a una prosa infestata di espressioni gergali". Semplificando forse un po' il ragionamento di Stone, possiamo dire che è il pubblico uscito dalla scuola di massa degli anni sessanta e settanta quello a cui Stone guarda; per rispondere alle domande che esso pone gli sembra necessario non solo moltiplicare l'attenzione a tematiche e campi di ricerca più legati alla storia della mentalità, dei comportamenti, dei valori e della sensibilità, cambiare metodologie e modelli esplicativi, come in parte già è avvenuto - perfino nel campo, per Stone sotto accusa, della "nuova storia"; ma anche mutare l'organizzazione del discorso storico, "col passaggio da una forma analitica a una descrittiva", e la stessa "concettualizzazione della funzione dello storico, col passaggio dallo scientifico al letterario". Queste trasformazioni - che Stone sintetizza con la formula di "ritorno alla narrazione" - gli sembrano le uniche capaci di restituire alle figure umane, e non alle strutture economiche o demografiche, il ruolo di protagoniste della storia. Tra Emmanuel Le Roy Ladurie che intitolò una parte di un suo volume di saggi Storia senza la gente e Lucien Febvre che cinquant'anni fa annunciò: "La mia preda è l'uomo", Stone si pone chiaramente dalla parte del secondo. Tra le risposte che le argomentazioni di Stone hanno ricevuto ne vanno ricordate almeno due. Quella di uno storico marxista aperto ed eclettico come Eric Hobsbawm ha mirato sostanzialmente a ridurre la portata di novità dei fenomeni rilevati da Stone. Hobsbawm registra il mutamento di campo delle ricerche storiche, lo spostamento su temi e dimensioni diverse da quelle macroscopiche delle strutture e della "lunga durata" tipiche della parte più rilevante della storiografia del secondo dopoguerra. Ma vede i due campi e i due tagli di ricerca come complementari: "non c'è nulla di nuovo", scrive Hobsbawm, "nello scegliere di guardare il mondo attraverso un microscopio piuttosto che con un telescopio". Per Hobsbawm gli orientamenti e i prodotti di queste nuove ricerche non costituiscono una rinuncia all'indagine sui grandi temi, e soprattutto non c'è contraddizione nel lavoro degli storici tra funzione scientifica e funzione letteraria. Tutti i nuovi tentativi gli sembrano "una continuazione, con altri mezzi, delle passate imprese" più che "le prove della loro bancarotta". Così ridotta, la questione della narrazione nella storia sembra a Hobsbawm più che altro un problema tecnico, di esposizione dei risultati della ricerca, che non ne intacca gli obiettivi di comprensione e spiegazione scientifica. Una seconda risposta a Stone è arrivata dal campo della "nuova storia" francese. Jacques Le Goff nella voce "Storia" del!' Enciclopedia Einaudi liquida piuttosto sbrigativamente le posizioni di Stone come restauratrici e lo accusa di schierarsi con "coloro che vorrebbero ricondurre la storia al vibrionismo e al positivismo limitato di un tempo", cioè proprio alle caratteristiche della storia tradizionale che con più forza sono state combattute in questi anni dalla "nuova storia". A Stone in effetti non sfugge il rischio di una restaurazione storiografica che riporti in voga la mera antiquaria e il racconto fine a se stesso. Ma considera più grave il pericolo di un isterilimento degli studi storici sotto i colpi di un determinismo economico e demografico, di una visione macrostrutturale e macrotemporale che immobilizza la storia, ne rallenta i ritmi, ne cancella le trasformazioni. Per Le Goff, invece, come per gli altri storici del gruppo delle "Annales", la storiografia narrativa è uno dei grandi ostacoli sulla strada della trasformazione degli studi storici in una scienza: "Il trio formato da storia politica, storia narrativa e storia cronachistica, episodica, evenemenziale", ha scritto anni fa, "non è che pura e semplice pseudostoria, storia da quattro soldi". Considerazioni più profonde Le Goff esprime invece a proposito di un tentativo analogo a quello di Stone ma molto più articolato, compiuto da Paul Veyne in un libro, Come si scrive la storia, pubblicato nel 1971 e quindi largamente precedente - tra l'altro - il saggio di Stone. Il testo di Veyne è tutto costruito sull'impossibilità di una storia scientifica o sulla rivalutazione della sua dimensione narrativa: "la storia non è una scienza e non ha nulla da attendersi dalle scienze. Non spiega e non ha metodo", scriveva Veyne. E alla domanda "che cos'è la storia" - concludeva - "la risposta non è mutata da quando, duemila e duecento anni fa i successori di Aristotele la trovarono: gli storici raccontano avvenimenti veri che hanno l'uomo per attore. La storia è un romanzo vero". Agli occhi di Le Goff la concezione di Veyne "ha il torto di far credere che lo storico abbia la stessa libertà del romanziere e che la storia non sia affatto una scienza ma un genere letterario". Peccato grave, considerati i principi da cui la "nuova storia" muove e tesa com'è, ha scritto Nicola Gallerano sul numero 13 di "Quaderni Piacentini", "a distanziare la storia dalla letteratura, a renderla scientifica''. Ridotto in questi termini, però, il dibattito attuale sembra replicare in realtà una vecchia querelle, già discussa dalla storiografia dell'Ottocento, e che verteva sull'alternativa se la storia dovesse essereconsiderata una scienza o un'arte. Vanno qui almeno incidentalmente ricordati i contributi assai significativi dei grandi scrittori che più o meno nello stesso arco di anni discussero i problemi del cosiddetto romanzo storico: dalle pagine di Alessandro Manzoni (Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione) già richiamate anche da Carlo Ginzburg, a quelle lucidissime di Balzac, all'articolo del 1868 in cui Tolstoj, a commento di Guerra e pace, tracciò in modo chiaro i caratteri della "discordanza inevitabile" tra l'artista e lo storico e dei loro "due scopi completamente diversi". Se tutta quella discussione muoveva da posizioni che rilette oggi appaiono forse eccessivamente schematiche, non meno schematica sembra la soluzione data al problema dalla ricerca storica e dai metodi dominanti nel dopoguerra, sulla scorta della sistemazione tentata nel 1942 da Cari G. Hempel, che aveva assimilato la spiegazione storica alla spiegazione scientifica e aveva attribuito al linguaggio della scienza il
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