Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

60 DISCUSSIONE/BRIOSCHI te della tradizione semiotica sia compatibile, e a quali condizioni, con questi sviluppi. Tali obiezioni non sono però granché interessanti. Ciò che conta sono i problemi, e il nostro sforzo di darne la migliore rappresentazione possibile. Teniamo dunque per buona la definizione della semiotica come di una disciplina filosofica: una disciplina dunque (se intendiamo prendere sul serio una siffatta qualifica) i cui unici vincoli metodologici sono quelli dell'argomentazione razionale - purché pertinente al problema in oggetto. Come è ovvio, nessuno vieta per questo di porre, in funzione di obiettivi parziali, vincoli metodologici più forti. Così Eco distingue le semiotiche particolari, che possono ambire allo statuto di scienza, e la semiotica generale: le prime studiano i singoli sistemi di segni, e sono in sostanza grammatiche; la seconda studia la problematica complessiva della "semiosi", in tutti i suoi aspetti, inclusi quelli che hanno rilevanza filosofica. Ogni questione di compatibilità è tra l'altro, in tal modo, risolta senza sacrificio alcuno. È una distinzione che merita tuttavia qualche chiarimento. Anche nello studio del linguaggio (ossia di una semiotica particolare) è possibile assumere punti di vista diversi: quello "grammaticale" (tipico della tradizione strutturalista e semiotica) o quello "filosofico" (a cui questa stessa tradizione, abbiamo visto, fa sempre più spesso ricorso). Si tratta di due strategie diverse, che presuppongono (sia detto a scanso di equivoci) un continuum, e dunque discriminabili più per enfasi, interessi e finalità che non per ragioni "obiettive". Esse si presuppongono insomma a vicenda: ma in ogni caso, per quel tanto che sono distinguibili, si distinguono "orizzontalmente" e non "verticalmente". Comunque vengano etichettate, vorrei precisare non tanto le differenze fra tali strategie, quanto appunto la dimensione che rendono percepibile. ffl n segno, o un simbolo, se lo vogliamo considerare "in ~ quanto tale", dobbiamo considerarlo in rapporto a qualcos'altro. Non può essere "per se stesso" se non quello che è per noi. Come scriveEco, esso "sta in virtù di quanto sta fuori di esso"; e come scriveva Peirce, "un segno, o representamen, è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità". Potremmo parlare, per chiarire meglio la cosa, di "livelli di realtà": a un certo livello di realtà i segni neri su questa pagina sono solo tracce d'inchiostro (ma già riconoscerli come tali implica processi percettivi tutt'altro che lineari); a un altro livello di realtà essi diventano, per l'appunto, i segni, le parole, le frasi che state leggendo; a un altro livello ancora di realtà voi siete di fronte a un atto complesso, definibile come "articolo", che -costituisce un intervento (probabilmente superfluo) intorno a problemi che altri hanno affrontato assai meglio (e meglio assai sarebbe non disturbarli nella loro opera). Ora, noi siamo perfettamente liberi di assumere come "dato" uno qualsiasi di questi livelli di realtà. Ma ciò che vale in genere per qualsiasi oggetto di percezione, a maggior titolo varrà per quegli "oggetti kantiani" che in forza del loro statu- .,, to sono i segni: non esistono "dati in sé"; qualsiasi percezione include un giudizio; noi non vediamo solo ciò che guardiamo, ma anche ciò che sappiamo. Ripeto, la prima strategia è del tutto legittima. Noi assumeremo di volta in volta come "dati" i risultati di un processo siffatto; e nella descrizione che ne seguirà il testo assumerà l'aspetto di un programma di istruzioni di cui noi siamo esecutori: ma non dobbiamo scambiare le proprietà della descrizione con le proprietà dell'oggetto; non dobbiamo tradurre le restrizioni metodologiche che abbiamo adottato in conclusioni ontologiche sulla natura delle cose. Questa non sarebbe solo una grave scorrettezza epistemologica, ma significherebbe per di più cancellare lo statuto stesso del segno, che semplicemente cesserebbe di essere un segno. Liberi dunque di adottare questa strategia, purché si sappia sin dal principio che non potremo derivarne alcun predicato che ci impegni su un ordine teorico diverso da quello elettivo. L'antimentalismo di cui i semiologi vanno così fieri, scorgendovi (a torto) una garanzia di obiettività "scientifica", altro non è che la sistematica "messa tra parentesi" di un fatto per nulla inquietante, e comunque del tutto ovvio: non è il segno che rinvia a qualcosa, siamo noi che attraverso il segno rinviamo a qualcosa. Il cuore del problema sta in questo "rinvio", o riferimento. Nella terminologia usuale, si riserva la parola "riferimento" all'atto di designare oggetti o stati del mondo extralinguistici: e la tradizione semiologica ha sempre guardato sia al termine sia all'atto con grande diffidenza, come a qualcosa di ingovernabile che minacciava l'autonomia della disciplina, da delegare nella migliore delle ipotesi a competenze altrui. Eppure, anche quando io riconosco in un suono un fonema, o quando, come dicono elegantemente i semiologi, "pertinentizzo" alcuni tratti di una traccia d'inchiostro leggendovi una lettera, che cosa mai sto facendo? Fra tutte le proprietà che l'oggetto possiede, io ne seleziono alcune e ad esse faccio riferimento. Non basta che l'oggetto possieda quelle proprietà: occorre che io faccia riferimento ad esse. Questo atto pervade e modella da parte a parte l'intero "sistema": e il primo è in funzione del secondo non più di quanto il secondo sia in funzione del primo. Non c'è nulla di misterioso in tutto ciò meno che meno l'insidia di un soggettivismo incontrollato. Al contrario: io debbo infatti riferirmi a proprietà che l'oggetto possiede realmente: non posso leggere quel che mi pare nelle tracce d'inchiostro che ho di fronte, così come non posso vedere quel che mi pare quando mi guardo intorno. Non a caso, dunque, oggi Eco recupera alla semiotica çiuesto aspetto del processo, parlando di "inferenze" e di "abduziÒne", nonché sostituendo alla nozione rigida di "codice" quella flessibile di "enciclopedia". La sua è una mossa felice, anche se ancora circondata da molte avvertenze prudenziali (hic sunt leones), e forse troppo preoccupata di salvare la continuità per invitarci a trarne tutte le conseguenze. Ma come vedremo tali conseguenze sono molto più vaste di quanto non sembri a prima vista, né mancheranno d'investire l'ambito della teoria e della critica letteraria. (1. Continua)

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