mo sul testo danno forma ad esso (fanno in modo che sia e dica ciò che dice ed è) almeno quanto il testo governa le operazioni che compiamo a partire da esso (permettendoci di riconoscere ciò che è e dice). Il "gioco linguistico" è tipicamente un gioco di coordinazione, dove avanziamo ipotesi che saranno confermate o, se smentite, corrette, fino ad ottenere un equilibrio soddisfacente tra i "dati" e la nostra "interpretazione": ma sarebbe sbagliato supporre che il testo contenga in sé tutte le istruzioni necessarie per l'uso; né si vede perché dovremmo, in nome di una presunta purezza metodologica, considerare pertinenti solo le informazioni contenute nel testo. Quando si vuole cogliere la dimensione delle profondità in un campo visivo è indispensabile usare entrambi gli occhi: adottare, insomma, due punti di vista simultanei, disgiuntamente necessari e congiuntamente sufficienti. Ebbene, quale strategia ha adottato la tradizione strutturalista e semiologica davanti a questo complesso intreccio di fattori? Mi pare di poter dire che sia stata una strategia certo feconda, ma anche dominata da esigenze in qualche misura contraddittorie. Per un verso, l'esigenza di uno'statuto autonomo l'ha indotta a imporsi restrizioni "forti", rivendicando alla propria competenza la sola analisi delle informazioni incorporate nel messaggio, e delegando ad altre discipline (la logica, la filosofia, la psicologia o la sociologia del linguaggio) il compito di integrare la descrizione dei fatti simbolici nella loro totalità. Per un altro verso, l'esigenza di coprire appunto nella sua interezza tale campo d'indagine l'ha portata di volta in volta a "indebolire" tali restrizioni, rivendicando un compito di coordinamento e di unificazione delle diverse prospettive in un programma globale di ricerca. Sotto questo profilo va tra l'altro precisato che di per sé la semiotica, se estende "verticalmente" l'analisi a livellidel testo ancora estranei alla linguistica strutturale, non per questo la estende di necessità in direzione "orizzontale". I maggiori impegni assunti dalla semiotica rispetto alla linguistica possono tradursi, al contrario, in un ulteriore sovraccarico di responsabilità attribuito al messaggio. Un esempio eloquente, che del resto ha senza dubbio rivestito un valore paradigmatico per la semiotica, è lo schema dei "fattori" di Jakobson, su cui un coro unanime di commentatori si è affrettato a porci sull'avviso: sia ben chiaro, la semiotica non si occupa di questi fattori in quanto soggetti o entità esterne al testo, bensì delle "funzioni", interiorizzate nel testo, che ne sono i corrispondenti formali. Risolvere l'oscillazione non è semplice, anche perché implica una revisione della propria eredità. mon credo che ci sia nulla di scandaloso nel rilievo che segue: i contributi originali della tradizione di cui stiao parlando si collocano per lo più sull'asse "verticale", che approfondisce la strutturazione interna del messaggio come programma di istruzioni da eseguire per comprendere il messaggio stesso. Quando ha avvertito il bisogno di integrare la sua rappresentazione dei fatti simbolici muovendosi in direzione "orizzontale", la semiotica ha quasi sempre mutuato le nuove categorie da tradizioni diverse. Il fenomeno ha assunto DISCUSSIONE/BRIOSCHI proporzioni macroscopiche negli ultimi anni. Non è un rimprovero, è solo una constatazione: quasi tutti gli sviluppi recenti della semiotica sono in sostanza adattamenti o puri e semplici prestiti; si pensi alla semantica dei mondi possibili, mutuata dalla logica, o alla teoria degli atti linguistici, mutuata dalla filosofia analitica del linguaggio. Quanto alla pragmatica linguistica o alla linguistica testuale, si tratta di linee di ricerca dichiaratamente sincretistiche, che in ogni caso rifiutano i vincoli e le restrizioni metodologiche con cui per lungo tempo la semiotica aveva identificato il proprio statuto disciplinare. Non c'è nulla di male, ripeto. Importante è che cresca la conoscenza dell'oggetto, non sotto quale etichetta siano state battezzate le teorie. Resta però da chiarire, a questo punto, quale sia il ruolo della semiotica. "Socrate può parlare se dorme'': se la semiotica continua a rispettare certi suoi tradizionali vincoli metodologici, allora non potrà rendere conto dell'assegnazione dell'uno o dell'altro contenuto proposizionale a questo enunciato, e si limiterà a collaborare con altre discipline in un progetto complessivo che la trascende; se invece intende rivendicare la propria competenza su tutti i fatti simbolici (e certo l'assegnazione di un contenuto proposizionale agli enunciati è un fatto simbolico), allora rischia di rinunciare allo statuto di disciplina autonoma, o addirittura di disciplina senz'altro. "Semiotica" diventerebbe un puro nome, inteso a coprire qualsiasi indagine su qualsiasi fatto simbolico. In realtà, questa seconda alternativa può presentarsi in una versione molto più dignitosa, oltre che più significativa in assoluto. Essa si configura, più esattamente, come un riorientamento della semiotica in senso cognitivo e filosofico, strettamente connesso alla progressiva valorizzazione del pensiero di un altro dei suoi padri fondatori, Ch. S. Peirce. Penso in particolare al lavoro di Eco, da Lector in fabula (1979) a Semiotica e filosofia del linguaggio (1984). Eco identifica la semiotica con l'intera riflessione filosofica sui fatti simbolici. Più precisamente la semiotica generale, in quanto teoria di tutti i sistemi di segni, è una disciplina costitutivamente filosofica, e coincide in sostanza con la filosofia del linguaggio allargata (come accade nei suoi esempi migliori) all'intera attività segnica, e non ristretta (come lascia intendere la sua denominazione) al linguaggio in senso proprio. Qualcuno potrebbe obiettare che tale riorientamento, o se si preferisce ritorno alle origini, lungi dal risolvere il problema lo ha reso semmai più vistoso. D'accordo, la semiotica è come la prosa di M. Jourdain; da Aristotele a Austin, tutti ne hanno scritto, anche senza saperlo. Ma, quando si pensi a quella tradizione moderna della semiotica che ha appunto adottato questo nome, e alla situazione descritta qui sopra, certe affermazioni possono lasciare trasecolati: specie quando Eco proclama il primato della semiotica, e lamenta la decadenza della filosofia del linguaggio nelle mani dei suoi rispettivi professionisti. È troppo facile mettere il proprio timbro preferito sulle teorie che piacciono, e poi denunciare la miseria di quanto resta da parte. Anziché prenderci in giro, sia pure con il garbo consueto, forse Eco farebbe meglio a spiegarci se il programma con cui storicamente ha caratterizzato la propria identità una parte rilevan59
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