58 DISCUSSIONE/BRIOSCHI no dei dati a sostegno del nostro argomentare. Non consentono di pervenire per via deduttiva all'interpretazione che illumina e definisce una volta per tutte il testo, ma concorrono a motivare razionalmente quelle congetture che di volta in volta ci sembra di poter affacciare. Non pretendono di essere gli unici strumenti e metodi legittimi, ma invitano chi affronta l'opera secondo visuali diverse a tener conto degli elementi che essi gli additano, e con cui in ogni caso le nostre ipotesi dovranno essere congruenti. Sta poi a noi (semiologi o non semiologi) trovare argomentazioni, interpretazioni, ipotesi rivelatrici: queste, nessun metodo o strumento potrà mai inventarle al nostro posto. Naturalmente, non tutto è così semplice. Pochi semiologi, ad esempio, concorderebbero con una rappresentazione di così basso profilo. E avrebbero dal loro punto di vista perfettamente ragione: la semiotica è infatti ben lontana dall'occupare una posizione del genere, che un tempo si sarebbe detta ancillare. Non intendo, sia chiaro, sollevare la solita accusa di imperialismo. Il fatto è che la tradizione linguistico-semiologica, almeno per quanto riguarda questi vent'anni di cui stiamo parlando, si è trovata ad operare in una fase di latitanza pressoché totale dell'estetica. O meglio, il tramonto dell'estetica speculativa si è tradotto, a partire dagli anni '50, in un orientamento empirico, volto a ricercare la peculiarità del fenomeno artistico nella dimensione del linguaggio e delle forme comunicative in cui esso prende corpo. Gli antichi problemi filosofici potevano e dovevano essere riformulati all'interno di questa dimensione: era perciò inevitabile che la semiotica fosse chiamata, o si sentisse chiamata, a fornire non solo metodi e strumenti di analisi letteraria, ma una teoria della letteratura, che rispondesse a quelle domande o suggerisse comunque ipotesi in merito. Fin qui non c'è nulla da obiettare. Al contrario: la prospettiva era promettente, né vedo quale altra strada si potrebbe ancor oggi seguire. Del resto, qualsiasi corrente critica ha sempre cercato la propria legittimazione in una qualche teoria, più o meno generale. La semiotica ha dunque fatto benissimo a proporne una sua propria. Ciò non implica però che debba necessariamente trattarsi di una buona teoria. Se io dico che i testi letterari sono prodotti linguistici, il mio è ancora un enunciato descrittivo. Da questo enunciato posso desumere un invito ad arricchire il nostro repertorio di tecniche d'indagine attraverso un opportuno scambio di esperienze con discipline quali la linguistica e la semiotica, che istituzionalmente si occupano di linguaggio. Ma se dico che i testi letterari possiedono certe proprietà linguistiche o semiotiche che li distinguono dai testi non-letterari, il mio è allora un enunciato teorico: io propongo, vale a dire, un criterio di demarcazione, riformulando in termini empirici il problema filosofico della definizione dell'arte. Il passaggio è molto più delicato di quanto in genere si creda. Non dobbiamo dimenticare che di fatto noi già operiamo, su basi intuitive e informali, una discriminazione di massima fra testi letterari e testi non-letterari. Sappiamo che I promessi sposi e L'Infinito sono opere letterarie, mentre una conversazione tra amici o un trattato di fisica non lo sono, anche se tutti condividono l'importante caratteristica di essere prodotti linguistici o, più in generale, semiotici. Ebbene, l'ipotesi è che appunto le categorie descrittive che usiamo per rendere conto dei fatti lingustici o semiotici siano abbastanza potenti da rendere conto anche di una siffatta demarcazione. È questo il caso delle categorie proposte dalla tradizione strutturalista e semiotica? Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro. D ra le preoccupazioni cruciali che hanno mosso i padri fondatori e che hanno contrassegnato lo sviluppo di tali studi negli anni '60, vi era certamente quella di fondare una linguistica e una semiotica autonome, definite da un assunto metodologico molto preciso: analizzare la lingua e i sistemi di segni in quanto tali. Ma è questo un assunto tutt'altro che trasparente. Che cos'è infatti un segno o, se si preferisce, un simbolo "in quanto tale"? Un simbolo, preso per se stesso, non è più un simbolo. E se lo si vuole davvero considerare "in quanto tale", bisogna rassegnarsi a considerarlo in rapporto a qualcos'altro. Il simbolo insomma si dà sempre in una situazione di paradosso: non può essere per se stesso se non quello che è per noi. Tipicamente, esso è per definizione una sorta di "oggetto kantiano", di cui possiamo parlare solo includendo nella rappresentazione che ne diamo le condizioni trascendentali che lo fanno essere un simbolo. E tipicamente il concetto di funzione (che esprime appunto questo stato di cose) è a sua volta per definizione un concetto di ordine trascendentale. Tale situazione di paradosso è, d'altra parte, così evidente ed ovvia che per lo più non vale nemmeno la pena di rammentarla. Ma è essenziale che, a furia di darla per presupposta, non si finisca per relegarla su uno sfondo amorfo ed inerte. In questo caso noi ridurremmo la portata del concetto di funzione ai rapporti immanenti al sistema, e affideremmo all'autonoma legalità di tali rapporti l'intera responsabilità delle comunicazioni. Ciò sarebbe legittimo solo se, quando abbiamo di fronte un messaggio, noi potessimo derivare linearmente da esso tutte le decisioni che dobbiamo assumere per comprenderlo. Il che, malauguratamente, non si verifica nella realtà. Si pensi ad esempio al caso ben noto di enunciati come "Socrate può parlare se dorme", che esprimono contenuti proposizionali diversi e incompatibili ("Socrate può parlare solo quando dorme" ovvero "può succedere che Socrate parli nel sonno"); o al caso, non meno noto, di enunciati come "tu devi uscire", che possono avere più di una "forza illocutiva" (qui il dubbio è se si tratti della prescrizione di un obbligo ovvero, più semplicemente, della constatazione di un obbligo). Via via che analizziamo i livelliin cui si struttura il messaggio, noi ci rendiamo conto che nel passaggio dall'uno all'altro dobbiamo assumere decisioni che non sono derivabili dai livelli precedenti. Molte decisioni relative a un livello possono essere assunte solo alla luce dei livelli successivi. E più in generale, se è vero che il testo determina e programma molte delle decisioni che assumiamo al fine di comprenderlo, è vero anche l'inverso: noi dobbiamo assumere molte decisioni indipendenti dal testo perché esso possa funzionare. Le operazioni che noi compia-
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