VENT'ANNI DOPO Franco Brioschi Eono passati vent'anni da quando un denso libretto di D'Arco Silvio Avalle (Gli orecchini di Montale, Milano, Il Saggiatore, 1965), seguito di lì a poco dalla celebre inchiesta a cura di Cesare Segre su Strutturalismo e critica (proprio in questi giorni ristampata, ivi, 1985), inaugurava in Italia un dibattito teorico e metodologico che si sarebbe rivelato centrale per la contemporanea riflessione sulla letteratura. Sarebbe del tutto legittimo dire che quell'episodio segna la data di nascita di una scuola: ma dovremmo subito correggera ci, per parlare semmai di una famiglia di scuole, facendo le debite distinzioni e impegnandoci ad astrarne una fisionomia comune in cui, presumibilmente, nessuna di tali scuole si riconoscerebbe. Diciamo allora semplicemente che, volenti o nolenti, alcuni prima altri dopo, un po' tutti dovettero prendere atto che un orizzonte in gran parte nuovo si era dischiuso davanti ai loro occhi: o meglio un territorio, il territorio del testo, di cui tutti ovviamente conoscevano l'esistenza, che già molti esploratori avevano indagato con profitto, ma in cui nuove guide invitavano a nuovamente avventurarsi. Punto di riferimento essenzialeera, in quegli anni, lo strutturalismo linguistico. Il che significava, per il critico letterario, scoprire un passato rimasto pressoché sconosciuto ai non specialisti (Saussure, Hjelmslev, Jakobson, la scuola di Praga, la linguistica americana di Sapir e Bloomfield), nonché "aggiornarsi" sugli sviluppi più recenti della disciplina (ancora Jakobson, e poi Martinet, Benveniste, via via fino a Harris e Chomsky). Se di qui si diramavano itinerari suggestivi che passavano attraverso altre scienze umane (l'antropologia di Lévi-Strauss o la psicanalisi di Lacan, la filosofia di Althusser o di Foucault), non mancavano per converso le proposte con cui misurarsi direttamente sul piano dell'indagine letteraria; anche qui, con un equilibrio tra il recupero di vicende ignote o dimenticate (il formalismo russo, Propp, ancora la scuola di Praga) e il fervore di sviluppi recenti (Barthes, Greimas, Genette). Lo stesso bilanciamento si riproporrà più tardi, con l'acquisizione di altre due capitali esperienze, legate rispettivamente ai nomi di Bachtin e di Lotman. Nel frattempo, con la progressiva elaborazione di quel programma generale di ricerca che va sotto il nome di semiotica, si è venuta consolidando una vera e propria tradizione, a cui va riconosciuto con pieno diritto un ruolo di protagonista nella moderna critica e teoria letteraria. La ricchezza e la sofisticazione degli strumenti (recuperati, rinnovati, inventati ex novo) di cui è depositaria assegnano a questa tradizione una sorta di monopolio nell'analisi del testo: voglio dire, difficilmente chiunque sia interessato allo studio di un'opera letteraria nella .sua compagine verbale, stilistica o strutturale potrà fare a meno delle categorie messe a punto dalla "poetica" d'ispirazione linguistica e semiologica. Che si tratti di metrica, di tecnica retorica o di forme del racconto, a qualsiasi livello del linguaggio letterario ci capiti di muovere i nostri passi incontreremo qualche cartello indicatore a ricordarci il debito che abbiamo nei suoi confronti, per averlo piantato o quantomeno riverniciato. Vero è che non mancano, sotto questo profilo, precedenti prestigiosi o tradizioni diverse (basti pensare alla storia millenaria della retorica o, per restare nel nostro secolo, ai grandi esempi della Stilkritik di Spitzer, di Auerbach, di Curtius, nonché del New Criticism americano), la cui eredità include sicuramente istanze e prospettive non ancora adeguatamente rappresentate nella metodologia della semiotica letteraria, e forse ad essa estranee per principio. Ma una sorta di monopolio si è comunque realizzato di fatto, se non altro perché qui la riflessione sulle categorie del testo ha assunto caratteri di sistematicità e di rigore sconosciuti in passato. Il vantaggio di potersi riferire, oltre che al modello, ai risultati stessi di una linguistica e di una semiotica tendenzialmente "scientifiche" non era, e non è, di poco conto. Parlare di "scientificità" rischia, beninteso, di ingenerare equivoci anche gravi (come è puntualmente accaduto, sia all'interno che all'esterno degli studi linguistici e semiologici). Non c'è dubbio che, sul piano degli impegni teorici, e soprattutto per quanto concerne queste due discipline, si è per lungo tempo identificata la "scientificità" con il rispetto di vincoli del tutto sproporzionati (la purezza formale del metodo) e con obiettivi assolutamente fuori luogo (la descrizione della lingua come calcolo): ma non è un caso se la proposta più radicale in questa direzione, l'algebra di Hjelmslev, non è mai assurta a paradigma di ricerca condiviso dalla comunità (a voler essere più precisi, dovremmo dire però che la sua sottigliezza logica è stata largamente ignorata o, quel che è peggio, fraintesa da una leggenda incline a scambiare il rigore concettuale con la rigidità). In effetti, costitutivamente "impura" era, tanto per cominciare, la stessa linguistica saussuriana, così radicata in una prospettiva sociologica nonostante (ma il contrasto è solo apparente) il suo appello all'autonomia di un'indagine sulla lingua "in quanto tale". Non meno "impura", per passare alla critica letteraria, era una categoria centrale come quella di straniamento, con cui un appassionato difensore dell'autonomia dell'arte quale Sklovskij sottolineava energicamente il valore conoscitivo del fatto estetico: per tacere del contesto folclorico che orienta gli studi di Propp, o della teoria funzionalista di Mukarovsky, dei geniali affreschi di Bachtin, o della "tipologia della cultura" di Lotman. La "scientificità" .si identifica semmai, qui come altrove, con un abito di razionalità analitica, inteso alla progressiva messa a punto di distinzioni, concetti, categorie che consentano di dominare e, prima ancora, di "nominare" la multiforme fenomenologia del linguaggio letterario: un "lessico" prezioso e insostituibile, che consente di descrivere interi generi e procedimenti microscopici, di suggerire grandi corrispondenze tipologiche ed esegesi puntuali. Chi pronosticava la prevaricazione funesta dei metodi sulle opere, o denunciava i rischi di un formalismo tassonomico fine a se stesso, di una chiusura superstiziosa entro i confini inviolabili di un messaggio letterario privato di ogni concretezza storica, può naturalmente continuare a collezionarne esempi, anche autorizzati: ma sarebbe altrettanto facile invocare una quantità di controesempi, che non cessano per questo di essere utili e interessanti. Un tale giochetto ha fatto il suo tempo, e non entusiasma più nessuno. Semplicemente, i metodi e gli strumenti che, a torto o a ragione, la semiotica letteraria rivendica come proprio patrimonio offro-
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