Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

Harold Pinter {foto di Patrick Lichfield/ Camera Presslagenzia Grazia Neri). SCRIVEREP RILTEATRO Harold Pinter Io non sono un teorico. Non sono né un autorevole né un attendibile commentatore della scena drammatica, delle scena sociale o di qualsiasi altra scena. Scrivo commedie quando mi è possibile. Questo è quanto; e questo è tutto. Perciò parlo con una certa riluttanza, ben sapendo che per ogni affermazione ci sono altri ventiquattro possibili aspetti di essa, a seconda del luogo in cui uno si trova in quel momento o del tempo che fa. Un'affermazione categorica, secondo me, non resterà sempre fissa e definitiva. Sarà immediatamente soggetta a venir modificata dalle altre ventitre sue possibilità. Nessuna delle mie affermazioni dovrebbe perciò essere intesa come finale e definitiva. Una o due di esse possono suonare finali e definitive, possono magari essere quasi finali e definitive, ma domani io non le riterrò tali e non vorrei che voi lo faceste oggi. Di due mie commedie che sono state date a Londra, la prima è stata in cartellone una settimana e la seconda un anno. Come è naturale esistono nei due lavori delle differenze. Nel Compleanno ho usato nel testo un certo numero di lineette fra le frasi. Nel Guardiano ho eliminato le lineette e ho usato invece i puntini. Così, per esempio, invece di avere: "Senti, lineetta, chi, lineetta, io, lineetta", nel testo si legge: "Senti, puntini, chi, puntini, io, puntini". Dal che è possibile dedurre che i puntini sono più popolari delle lineette e questa è la ragione per cui il Guardiano ha durato sulle scene più a lungo del Compleanno. Il fatto che in nessuno dei due casi potevate udire i puntini e le lineette non è rilevante. Non potete ingannare i critici, a lungo andare. Essi possono distinguere i puntini dalle lineette a un miglio di distanza anche se non possono sentire né le une né gli altri. Mi ci è voluto del tempo per abituarmi al fatto che i giudizi della critica e del pubblico seguono nel teatro un grafico quanto mai irregolare. E il pericolo per uno scrittore sorge quando egli diviene facile preda dei consueti bacilli di trepidazione e di aspettative a questo riguardo. Ma credo che Diisseldorf mi abbia chiarito l'atmosfera. Circa due anni fa a Diisseldorf io, seguendo l'uso del continente, mi presentai alla ribalta con gli attori tedeschi del Guardiano al termine della prima recita del lavoro. Fui immediatamente accolto con fischi assordanti da quelli che dovevano essere i più grandi fischiatori del mondo. Ebbi l'impressione che facessero uso di megafoni, ma erano proprio i loro fischi naturali. Gli attori furuno ostinati quanto il pubblico e ci presentammo alla ribalta per ben trentaquattro volte e sempre accolti da fischi. Alla trentaquattresima erano rimasti in sala soltanto due spettatori che continuavano a fischiare. Tutto questo, stranamente, mi rincuorò, e ora, ogni volta che provo il tremito delle antiche apprensioni e aspettative mi ricordo di Diisseldorf e ne vengo guarito. Il teatro è una vasta e vigorosa attività pubblica. Scrivere è per me un'attività totalmente privata, si tratti di una poesia o di una commedia. Questi fatti non si conciliano facilmente. Il teatro professionale, qualunque siano i meriti che indubbiamente possiede, è un mondo di falsi "climi", di calcolate tensioni, di un certo isterismo e di una buona dose di inefficienza. Le schermaglie di questo mondo in cui, suppongo, io lavoro, divengono sempre più decisamente diffuse e intrusive. Tuttavia, fondamentalmente la mia posizione è rimasta la stessa. Ciò che io scrivo non ha alcun obbligo se non verso se stesso. La mia responsabilità non è verso il pubblico, i critici, i produttori, i registi, gli attori o il mio prossimo in genere, ma semplicemente verso il lavoro che ho per le mani. Vi ho messo in guardia contro le affermazioni definitive ma a quanto pare ne ho pronunciata una proprio ora. In genere io ho dato avvio a una commedia in modo molto semplice: ho trovato un paio di personaggi in un particolare contesto, li ho messi insieme e sono stato a sentire quello che dicevano, con l'orecchio teso. Il contesto è stato sempre per me concreto e preciso, e concreti anche i personaggi. Non ho mai incominciato una commedia partendo da una qualche idea o teoria astratta, e non ho mai considerato i miei personaggi quali messaggeri di morte, di condanna, del cielo o della via lattea, o in altre parole figurazioni allegoriche di una particolare potenza, qualunque ne sia il significato. Quando un personaggio non può essere agevolmente definito o compreso in termini famigliari la tendenza è di collocarlo in un simbolico scaffale, di metterlo

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