"È buono?", mi chiese la ragazza minuta e bionda che mi si era improvvisamente avvicinata. "Sei forestiero?" "Si", risposi. Era inutile mentire. Belém era una grande città, di più di un milione di abitanti. Forse avrei potuto passare inosservato, ma le bugie troppo evidenti dovevano essere evitate. La ragazza certamente non rappresentava alcun pericolo, ma ciò nonostante, avrei agito secondo le regole. "Di dove?" "Di Porto Alegre". Non era vero, ma conoscevo bene Porto Alegre. "All'altro estremo. Quanti chilometri sono fin là?" ''Migliaia. Quattromila, più o meno''. "Io sono di Macapa. Studio qui, sono la pecora nera della famiglia''. I suoi occhi erano di un verde tenue. Con il suo sguardo ansioso e il viso piccolo mi ricordava la scimmia triste del Goeldi. "Anch'io", dissi, "sono una pecora nera". Andammo via, mangiando il gelato. "Dove vai ora?", le domandai. "Vuoi venire a cena con me?" Mangiammo una grigliata di tambaqui, nel ristorante dell'albergo. I pesci dell'Amazzonia sono tutti molto buoni. Ogni volta che andavo al nord mangiavo solo pesce. La cucina del Para è molto ricca. I gastronomi dicono che è l'unica genuinamente brasiliana. Lei inveceprese l'anatra al tucupi. Con tutto quel pesce: tucunarés, pirarucus, tambaquis, pintados e gamberi, aragoste, granchi, non avrei certo perso il mio tempo a mangiare l'anatra come se fossi in Francia. Nel ristorante studiai la ragazza. Mi raccontò che aveva diciannove anni, che era di Macapa, suo padre commerciava in legname (uno dei tanti che stavano devastando il Brasile), riceveva un mensile da casa, vivevada sola, doveva fare l'esame di ammissione per iscriversi alla facoltà di Economia dell'Università di Belém. Era la verità, potevo stare tranquillo. Andammo nella mia stanza. Il suo corpo piccolo era molto ben fatto ma nuda sembrava più vecchia e flaccida. "Posso restare a dormire?", mi chiese. Questo accadeva spesso. A volte, nelle piccole città, erano come cuccioli che mi seguivano per le strade fin dove abitavo. Le accoglievosempre con carezze sulla testa e le nutrivo. "Si", risposi. Durante la notte restai a lungo sveglio. Fu una settimana di noia. Carlos Alberto mi telefonò da Manaus per dirmi che stava all'erta. Aveva fatto una ricognizione completa dell'aeroporto. "La città è piena di trafficanti. La quantità di gente che si porta via scatole piene di apparecchi elettrici è straordinaria. Gente di ogni parte del Brasile. Sono dei matti. Chi è che ha inventato questo schifo di zona franca"? "È una lunga storia che non starò a spiegarti per telefono", risposi. "Hai trovato una mamma?" "Non ancora. Qui non ci sono che disgustose borghesi in pantaloncini, pauliste, cariocas o del sud che guardano le vetrine di articoli importanti. Sono coglioni profumati". STORIE/FONSECA La ragazza di Macapa si chiamava Dorinha. Maria das Dores. Dorinha, dolore piccolo, doloretto. Così la chiamavo. "Doloretto, parto oggi". · "Posso venire con te?" "Ritorno". "Lo giuri?" I giuramenti non valgono niente. I miei meno ancora, lo giuro. IT1 iaggiavo con poco bagaglio. Una borsa a tracolla e un M sacco di nylon. Doloretto mi portò il sacco fino alla banchina Mosqueiro Soure. La borsa non la lasciavomai. Non potevo, ovviamente, sarebbe stato un errore. Sul molo c'erano centinaia di persone cariche di bagagli, bombole di gas, materassi, mobili, provviste alimentari. Il Pedro Teixeira aveva una prima classe di cento passeggeri e una terza. Ero Fiuscitoa ottenere una delle poche cabine a due posti. Un posto era stato cancellato. Non volevo viaggiare con nessuno. La maggior parte delle cabine di prima aveva quattro cuccette, solitamente occupate da persone che non si conoscevano. Soltanto due cabine, definite di lusso, avevano il bagno e l'aria condizionata. Tutti gli altri passeggeri usavano i bagni comuni. La mia cabina era la numero trenta, e si trovava a tribordo. "Non dimenticarti di scrivermi", disse Dorinha. "Ciao, Doloretto", le dissi mentre la baciavo sulla guancia. Dall'altoparlante annunciavano che i passeggeri della terza classe erano pregati di imbarcarsi. Si precipitarono in coperta, a poppa, e piazzarono le loro amache. Prendevano posto gli uni accanto agli altri, con le amache che si toccavano, in un groviglio che somigliava a un'invenzione della natura, forse un fiore del fondo marino. Una rete di amache che non avrebbe potuto essere progettata né creata da nessun architetto o ingegnere, ma costruita, in appena mezz'ora, dalla necessità e dall'ansia degli uomini. Faceva molto caldo. Tolsi la sedia dalla mia cabina e la misi nel corridoio. Da quel punto vedevo le amache. C'era una porta di comunicazione aperta, ma i passeggeri della terza classe si limitavano a guardare il corridoio della prima con curiosità riverente. Un uomo oltrepassò la porta insieme alla moglie e al figlio. Mi passò accanto e lo sentii dire "quello li dev'essere maledettamente importante". Non c'era rancore nella sua voce. Egli accettava il fatto che nel mondo ci siano individui maledettamente importanti che dispongono di una cabina e una sedia per sedersi nel corridoio, e altri costretti a viaggiare nelle amache appese come ceste di cipolle. La cabina ventotto (a tribordo le cabine avevano numeri pari, a babordo dispari) era occupata da tre uomini. Uno di essi si mise a parlare con me. Disse che faceva l'avvocato a Goias e che si stava trasferendo a Parintins. "A Parintins c'è solo un giudice, un pubblico ministero e un avvocato. È inutile rimanere nella Goiania, c'è troppa concorrenza". 41
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