Lima (1980). Gloucester Il (1944). . .,.,. ì ..... complesso che era allora la città di New York? Quando mi regalarono quella piccola macchina fotografica e cominciai a scattare fotografie, ero dunque già sviluppato e maturo dal punto di vista della formazione estetica. Cercai una comunità di fotografi con cui lavorare e dai quali imparare. Eravamo proprio nel 1932-33, all'epoca della Grande Depressione. Entrai a far parte della Film and Photo League, la lega del cinema e della fotografia, che era un'organizzazione culturale del Partito comunista. Il Partito aveva attività artistiche d'ogni genere - teatro, letteratura, cinema - e le appoggiava fortemente. La Lega mi piacque, e ci lavorai sino a che imparai a fotografare, sino alla fine degli anni Trenta. In quel periodo facevo fotografia documentaristica e organizzai il Feature Group; col gruppo lavorammo a un grosso progetto, Harlem Document, e ad altri documentari sulla città di New York, come Dead End: the Bowery. In quel periodo presi anche a fotografare altre cose; l'architettura, per esempio: il che soddisfaceva le mie esigenze formali. Feci degli studi di architettura a Martha's Vineyard, nel New England, insieme a degli storici dell'architettura. Avevo un orientamento spiccato per la forma. Quelli che, come me, sono inquieti e sempre alla ricerca di qualcosa, lacerati dal conflitto che sempre divide lo spirito dell'uomo occidentale - un conflitto fr~ il bene e il male, fra la mente e il corpo - per risolvere i loro problemi debbono prendere la via delle soluzioni formali. Questo fu quello che io feci lavorando sull'architettura. E questi sono gli inizi. Ma quando ha sentito di aver raggiunto con le sue foto una soluzione formale che le dava piena soddisfazione? Solo negli anni Quaranta trovai la mia vera strada. Avevo cominciato a lavorare con l'ambiguità, con i significati multipli: tutto questo si combinava bene nella fotografia, perché la fotografia stessa era un'ambiguità. Quando si fotografa un oggetto, e poi si guarda la foto, è ovvio che la foto non è l'oggetto: si ha una trasformazione naturale, un naturale conflitto, per così dire. Così trasformai cose. Scoprii che potevo assai bene proiettare me stesso nella mia produzione: alla fine si hanno delle foto molto accurate di determinanti oggetti, ma quando le si guarda, si capisce che non è l'oggetto ciò che si vede, e che il significato della foto sta altrove. Questo, credo, è il senso della fotografia. La cosa ha aspetti assai complicati, perché si tratta di trasformare. È questo il centro segreto dell'arte: trasformare. Io partivo fotografando un oggetto, ma questo era solo un punto di partenza, un inizio: poi detraevo, sottraevo, toglievo, per trasformare il mio prodotto. Su questo mi fu utile l'esperienza fatta con la musica e la poesia, che si fuse con il contatto con la pittura contemporanea. Una galleria d'avanguardia di New York, la Egon Gallery, mi fece fare una mostra. Era il 1947, fu la mia prima mostra. Già appariva chiaramente che quello che avevo prodotto erano immagini, non oggetti. Alla Egon incontrai Franz Kline e Bill de Kooning e mi interessai al loro lavoro. Gli artisti dell' . <\rmourvennero a vedere le mie cose e nacque una collaborazione: trassero idee da quel che facevo io, idee sulla forma e la trasformazione. Molti giovani artisti mi seguirono. Per suo merito, Siskind, la natura dellefotografia cominciò a cambiare. È stata una rivoluzione profonda? Sì. Sino allora in America i fotografi si ritenevano una specie separata, a parte, distinta dalle arti figurative e dalle correnti artistiche. Tutt'a un tratto questa barriera cadde, perché io facevo delle cose collegate alle altre arti, da cui venivo influenzato e che a mia volta influenzavo. Le barriere fra la pittura, la grafica e la fotografia vennero abbattute. Oggi questo è cosa ovvia: ci sono molti pittori che usano le fotografie, e fotografi che fanno pittura; ma allora fu una grande novità. Il rapporto fra la sua fotografia e lapittura è molto più profondo di un rimando puramente rievocativo, che pure è evidente, per esempio al trompe-l'oeil? Non appartengo alla tradizione del realismo, a parte, si intende, per la mia prima fase, quella documentaristica. Tutto quello che ho fatto a partire, diciamo, dal 1940 si inserisce in un atteggiamento tutto speciale. All'inizio ero ancora legato alla musica e alla poesia, e proiettavo i miei conflitti. Le mie immagini d'allora rivelavano una terribile inquietudine, molto personale, mentre mostravano una preoccupazione per la struttura formale. Come ritirare un po' di me stesso dall'immagine? Per me l'arte non è una espressione personale: certo la persona c'è, li dentro, ma l'espressione consiste nel creare un oggetto che è completo ed esiste al di fuori dell'autore. Lavorando cominciai a sentire sempre più forte la differenza fra me e la mia opera: quando facevo una cosa, mi appariva impossibile d'essere stato io, proprio io, a farla. Questo quasi mi spaventava; a volte dovevo uscire dalla camera oscura tanto ero sopraffatto dall'emozione. Non potevo credere di essere io a creare delle cose così belle e complettr, E so che non ero io a farlo, in realtà; attraverso di me operava la lunga tradizione dell'arte, soprat- .. 35
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