IL LAPSUS Claude Ollier D eri sera ritornavo dalla sala Gaveau, dove avevo ascoltato tre ammirevoli quartetti di Weibach, quando all'altezza del boulevard Haussmann scorsi una libreria con la vetrina illuminata a giorno nonostante l'ora tarda. Libri d'arte assai belli attiravano l'attenzione, ma io mi soffermai su una copia di Impressioni d'Africa, un po' insolita nella sua copertina azzurro pallido, e immediatamente pensai a Claude, esiliato nel sud del Marocco, e alla curiosa lettera che mi scrisse a fine ottobre, lettera a cui mi ero finalmente risolto di rispondere la settimana scorsa, ma che, con grande disappunto, non avevo potuto ritrovare fra le mie carte. Dopo qualche luogo comune sul clima e sui rapporti che era obbligato a intrattenere, per le sue mansioni, con molte persone che giudicava scarsamente dotate di umorismo, riportava un sogno che aveva fatto poco tempo prima e la cui materia gli era sembrata di un'insolita ricchezza. Sono proprio sicuro di non avere stracciato quella lettera. Forse l'ho lasciata in campagna, forse l'ho perduta. Comunque sia, l'altro giorno non ho potuto ricordarmi dove l'ho messa e mi vedo costretto a fare appello alla memoria per ricostruirne la sostanza. A dire il vero, non mi sermbra che il racconto.di Claude trattasse di un autentico sogno, con collegamenti e sviluppi, ma piuttosto di un unico e breve episodio in apparenza insignificante, che egli si era ricordato al risveglio con insolita precisione e a cui da quel momento aveva continuato a pensare con stupore. Il luogo del sogno rappresentava un teatro, o meglio, una specie di caffè-concerto. Dei dettagli riguardanti la scena e gli spettatori, la lettera del mio amico non faceva parola: probabilmente erano rimasti troppo sfocati o incerti dentro di lui per poter essere utilmente registrati. D'altronde il nocciolo dell'argomento non stava lì, ma piuttosto nella battuta inattesa pronunciata da un personaggio secondario in margine a un dialogo intavolato sulla scena. Claude parlava di due o tre personaggi, egli stesso non era ben sicuro; ma poco importa. Resta il. fatto che uno di essi aveva appena esposto agli altri una sua idea personale (si trattava, pensa Claude, di una specie di sketch comico abbastanza fiacco), quando entrò in scena in punta di piedi una giovane donna vestita di bianco, la quale, dopo aver raggiunto l'estremità del palcoscenico ed essersi chinata verso le prime file, pronunciò a bassa voce ma molto distintamente e in un gran silenzio, così che tutti la udirono: - È astratto come un Raymond Rousseau. Detto questo si ritirò e scomparve così come era giunta. E Claude -mi sembra proprio che il suo racconto continuasse così - da qualche parte in sala (in balconata, egli pensa), rettificò subito tra sé: - Non Rousseau, Roussel!-- 11resoconto si fermava qui. Seguivano numerose pagine piuttosto oscure in cui il mio amico, per esporre le ragioni dello stupore nel quale lo avevano immerso quelle due battute, non sembrava seguire un piano ben preciso. Era un insieme di riflessioni frammentarie, incerte, fra le quali egli stesso si sentiva un po' sperduto. Il punto essenziale, secondo lui, era questo: considerato il tipo di luogo in cui si trovava, il tipo di spettacoli che vi sono presentati solitamente e la qualità del pubblico a cui era mescolato (un pubblico di bocca buona, bizzarro, amante delle allusioni politiche e dei giochi di parole licenziosi), gli sembrava impossibile che l'osservazione sussurrata dalla giovane donna potesse avere altro autore che lui stesso. Questa convinzione si fondava, nel suo ragionamento, su molteplici considerazioni, fra cui l'inverosimiglianza dell'attribuire una tale battuta all'autore dello sketch. Forse quest'ultimo conosceva solo il nome dello scrittore chiamato in causa? Anche ammettendolo, egli non avrebbe mai introdotto quel nome in un dialogo destinato a simile pubblico: non perché l'osservazione non fosse plausibile (Claude, ricordo, trovava persino la cosa piuttosto divertente), ma perché nessuno avrebbe sicuramente potuto apprezzarla. Inoltre, che necessità ci sarebbe stata di far entrare in scena un nuovo personaggio, nel bel mezzo del dialogo, al solo scopo di fargli pronunciare, come in un "a parte", quell'unica riflessione? Se l'autore avesse immaginato effettivamente la battuta, l'avrebbe affidata a uno dei due o tre attori già in scena. No, per Claude la cosa non presentava dubbi: era lui, solo lui, indiscutibilmente, che aveva avuto quel pensiero. E aggiungeva questa testimonianza di carattere più soggettivo, più intimo, ma non meno inquietante: quando la giovane donna aveva dischiuso le labbra per articolare le sillabe incriminate, egli aveva avuto la strana impressione che provenissero dalla sua "interiorità". Da questo derivava il carattere un po' mitigato della sua rettifica: correzione dell'inesattezza, certo, ma anche protesta affettiva, indignata. Detto ciò, perché la riflessione era stata formulata in scena da un personaggio che sembrava inventato a quello scopo preciso? Qui stava l'enigma, ed è intorno a questo enigma che girava gran parte della lettera del mio amico. Devo proprio confessarlo: per quanto fragile mi sia sembrata (e mi sembri tuttora) l'ipotesi che egli costruiva, finora non ho potuto impedirmi di trovarla molto seducente, almeno per lo spirito se non per la ragione. Egli immaginava che i personaggi che popolano i nostri sogni non siano altro che i portavoce di nostre idee. In questo senso, noi non assisteremmo in sogno a uno "spettacolo", né ci vivremmo una qualche "avventura": le creature che si muovono nel sogno personificano le molteplici sfaccettatùre del nostro senso critico. Non è nelle mie intenzioni dimostrare l'improbabilità di una simile concezione sul piano psicologico. Vorrei solo cercare di ritrovare le frasi del mio amico che più mi avevano colpito (mi chiedo davvero che cosa ne è di quella lettera). Egli ormai concepiva il sogno come la messa in scena della meditazione durante il sonno. Adottando questo punto di vista il mistero della creazione onirica veniva spostato. Nell'esempio che ci interessa, non bisognava più chiedersi: "Che cosa significa l'intrusione della giovane donna nella scena di rivista?", nè d'altra parte: "Dove vogliono arrivare questi attori?", e neppure: "A che cosa corrisponde questo teatro?", ma piuttosto: "Per quale motivo quella giovane donna minuta, gracile, tutta vestita di bianco, è stata scelta come incarnazione di un tale pensiero?" E il mio amico si stupiva di quella scelta, che a
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