divenire. Del sublime e dell'orrido dell'uomo. A lui che mi rimproverava in una lettera del '41 di credere in Dio mentre a lui non riusciva, risposi che Dio lui lo invidiava perché aveva il vantaggio di vedere più cose. D ummo presto separati dalla guerra, lui a Casarsa, io in giro per l'Italia e infine a Milano. Ci scrivevamo quasi ogni settimana o quasi ogni giorno, almeno io, dalla casa editrice dove lavoravo. Le mie lettere sono andate perdute. Prendevo treni gelati per raggiungerlo a Casarsa, dodici, a volte venti ore di viaggio da Milano. Sbarcavo sull'erba della pianura dura dal gelo e poi nella cucina calda di sua madre a Versuta, due brande accanto al fuoco. Di giorno, ebbri di felicità, alati, smemorati, correvamo in bicicletta sulle prode gelide del Tagliamento per qualche piccolo cinema parrocchiale dei paesi vicini o a sfrenatamente ballare (ballerini infaticabili e virtuosi) tanghi, polke e fox-trot nelle balere popolari, o a seguire le sacre rappresentazioni contadine del Carnevale, (una ragazza vestita da maschio, che dialogava con la Quaresima, un ragazzo vestito da donna), maschere inquietanti, di casa in casa a bere vino e a mangiare polenta. Io ero il riflesso di tutto ciò che gli apparteneva e mi sembrava di non abitare un paese reale, ma il suo stesso cuore. Anche Pierpaolo allora era ancora felice: "forse devo uscire da questa mia ineffabile e ridicola serenità a cui contribuiscono i campi casarsesi, il mio aspetto troppo giovanile". Anche la sua omosessualità era ancora un gioco dolce tra ragazzi, un quaderno rosso che gli usciva dalla tasca e che giocavamo a strapparci. Ma il viso all'improvviso devastato dall'ansia di seguire le goffe movenze dei teneri ragazzi contadini, i giovanetti "pioppi", come li chiamavamo tra noi, opposti ai "tronchi-re" che erano i neri gelsi nodosi e i contadini neri e vecchi. Di nuovo a casa, ero stordita per giorni e giorni, giravo nella mia vita consueta come chi possiede un segreto e in tram, andando al lavoro, chiudevo gli occhi perché non vedessero crepitare al fondo la cucina di Versuta e il passo dinoccolato di Tonuti e Pierpaolo che rideva sulla bicicletta. E a casa già trovavo una sua lettera. "Cara Silvana, mentre scrivo nell'angolo della stanza che conosci, tu sei nel camion già fatta quasi fantasma. Lascia che mi lamenti ancora retoricamente sull'assurdità di questo fatto; non sono passate due ore dacché ti ho lasciata! Ho ritrovato la mia solitudine (sai quella confidenza, quella nausea cretina che non si ha più voglia di prendere in considerazione); e mi son messo a suonare l'enorme tamburo del mio esserci. Poiché riceverai questa lettera in un momento non analogo a questo, ricambio il sacchetto di particolari nitidi che adesso tu mi dai: cambio del tuo golf scarlatto, dei movimenti del tuo discorso, della tua fronte ecc., voila senti Sior Anzul che chiama Oriente, il fruscio del Gazzettino mosso da mio padre. Non ti sembri mostruoso se ti dico che la memoria 'ha già fatto'. Il tuo fazzoletto agitato sotto le stelle di Macugnaga non ha nulla da farsi invidiare dai tronchi-re e dalla nostra coppia che dipana la matassa di una samba". Gli risponSTORIE/MAURI devo, tranquilla come una madre che cuce mentre il figlio dorme nella culla. me! punto più buio della guerra ci giunse, non so come, la notizia che Pierpaolo era morto, trucidato dai tedeschi. Mio fratello Fabio ed io ci disperammo, rotolati per terra a piangere. Ma un giorno lui arrivò. Come l'angelo di Teorema. Dormì tra i mobili accatastati del salotto, era sconvolto dalla perdita di Guido, ma ancora più sgomento del suo futuro. Ora era solo a consolare la madre e per sempre. Unico responsabile, senza Guido, a reggere la sua innocenza. Sembrava a lui finita, in quel momento, la libertà di dannarsi. Vidi il principio della sua disperazione. Quando fu cacciato da Casarsa·lui, mirabile maestro dell'Accademiuta Furlana, mi chiamò a Roma. Mi disse che abitava una casa abusiva, senza indirizzo, a Rebibbia. Altra strana coincidenza: Rebibbia era stata unà piccola campagna, un campo di fave, una capanna dove andavamo la domenica da bambini, un sogno agricolo di mio padre finito subito. Stentai a trovarla, ma quando entrai nella povera casa senza tetto, lui era lì, immobile, disperato di avere, come mi diceva, perduto tutto: lavoro, rispetto, fiducia del suo mondo casarsese, la scuola e di avere trascinato via la madre. Sembrava il futuro Cristo del suo film. Intorno, marrane, serrati, immondezza, l'informe suburbano, un pezzo dell' "inferno della borgata", ma vivo di ragazzi, di diseredati. Dietro le sue parole desolate vedevo lampeggiare nel fondo dei suoi occhi profetici una diabolica voglia di vivere l'inferno che lo circondava, un nuovo ignoto e sterminato territorio del reale, una nuova libertà, un mutamento che la catastrofe gli apriva davanti, l'appropriazione famelica di altre esperienze, di altre forme, di altri corpi e linguaggi. ''Cara Silvana, è tornata domenica mattinà; l'unica ora in cui posso scrivere agli amici senza l'ossessione del lavoro che mi aspetta. Ho appena aperto i balconi di quella stanza dove tu sei venuta una domenica, quella triste, muratoriale stanza sospesa sul fango, in cui hai saputo cogliere i 'fili di sole', come una specie di consolazione intimista (quelle consolazioni che si hanno nell'infanzia con un brivido di piacere nel ventre: essere raccolti, soli, ridurre il mondo alle pareti che ti circondano e gongolarvi, giocando coi fili di sole, scrivendo una poesia per il compleanno della mamma). Aprendo questi balconi e urtando col petto contro il petto della primavera, già adulta, quasi sfatta, la vera, tremenda primavera romana, che sa, e il profumo è come un enorme parafango scottato dal sole, una lamiera di stracci bagnati e seccati dal caldo, di ferrivecchi, di scarpate brucianti di immondizie: ho pensato immediatamente a te, con un ingorgo di dolcezza. Qualche brandello di adolescenza rimane attaccato allo scheletro: e basta l'odore della madeleine... nel mio caso un'atroce madeleine di periferie, di case di sfrattati, di stracci caldi.... Adesso pensa come siamo spaventosamente soli: come se ci avessero presi, denudati e cacciati per sempre all'aperto". Perché il suo "specifico" era questo: miracolosamente suturare all'apparenza, ma con quanta sanguinosa fatica che la 21
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