Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

SUPASOLINSIT. ORIDAIUNACORRISPONDENZ Silvana Mauri mell'urlo incredulo di dolore per la morte di Pasolini, nei terribili giorni di atroce cronaca, dei funerali a Roma e a Casarsa, (seguivo la sua bara lungo i dolci campi casarsesi, sorreggendo al braccio lo zio Gino Colussi e la zia Enrichetta, identici al vecchio che Pier Paolo non poteva più diventare) qualcuno, forse Laura Betti, mi chiese le sue lettere. Con strazio, ritrovai a fatica quei fogli e fogli, spesso senza data, secchi e leggeri come ali di farfalla, lì lì per spezzarsi, scritti a mano da Casarsa, a macchina da Roma, dal 1941 al 1959, che mi ero trascinata lungo le peregrinazioni della guerra, il matrimonio, la maternità, il lavoro, confuse con mille altre, nello incosciente spreco della giovinezza. Allora, le diedi a Laura per consolarla, senza consapevolezza alcuna. La morte di Pierpaolo appena incominciata mi atterriva come una muraglia nera, invalicabile, che sbarrava persino il pensiero della speranza, buia, nell'eternità dei giorni e quel povero mucchio di parole giovanili, scritte a me, fitte fitte nei primi anni e poi tenacemente fedeli ma più rare, dentro quella sua esistenza "gridata" in tutte le sue opere, i suoi articoli, i suoi films, i suoi successi e processi, mi sembravano preziosi solo per me. Ma queste lettere, invece, dovevano, a sessant'anni, nella furia biografica intorno a Pasolini, farmi diventare quasi cele~ bre, per lo meno molto citata. Sono state riprese, a pezzi, sbocconcellate qua e là in vari libri, estratte dal loro contesto originario, anche profanate. Ma, come gli addetti ai lavori sanno, non mi appartengono. Appartengono agli eredi, non al destinatario. C'è, in questa legge, qualcosa di giusto per un uomo diventato pubblico come lui e morto precocemente, ma anche di crudele per la vecchia ragazza che le aveva ricevute, amate e provocate. Non potevo rileggerle.Non reggevo quell'ardore vivo, pregnante, tenero, "il suo", di uno ieri appena passato che confermava l'irrimediabile silenzio di oggi. Quando si perde chi si ama i ricordi al primo momento sono macerie. Questo seminario di Parigi mi ha costretto ad affrontarle con un'emozione quasi insostenibile e allora ho capito che era vero che l'avevo conosciuto "prima", nella potenzialità già intera ("tu mi hai conosciuto", mi scrive, "sano come un albero e intero come una pianta") e già immutabile, ma ancora tutto in sè, prima di volgersi. ffl e lo portò a casa mio fratello Fabio, sedicenne, cioè ~ di quattro anni più giovane di Pierpaolo e di me, avendolo conosciuto nella redazione di una rivista giovanile "Il Setaccio", a Bologna, dove (ed è una delle strane coincidenze dei nostri destini) la famiglia Pasolini e la mia erano stabilite provvisoriamente e, in fondo, per caso. Quei primi ricordi mi si confondono nel pulviscolo d'oro della giovinezza, dentro quell' "incandescenza" che sfuma i contorni come incontri sognati. Mi parve bellissimocon la sua faccia dove i tratti slavi, romagnoli, ebrei, avevano composto linee uniche, una maschera irripetibile. Il corpo fin troppo espressivo, da Mantegna e da povero, medioevale, così forte e virile che si ti afferrava i pol?i per comunicare affetto, te li stringeva tra due tenaglie. Dal suo atteggiamento timido, di riserbo e sobrietà settentrionale, così diverso dalla mia traboccante estroversione di ragazza del centro-sud, uscivano discorsi lenti, esitanti, con quell'accento acerbo, spoglio, rugiadoso, acre, dei veneti del Friuli. Dal suo aspetto composto, ordinato, attento di "bravo ragazzo" (quale acutezza ferma e profonda nei suoi occhi grigi), scoppiavano all'improvviso i nitriti di divertimento, di grande abbandono giovanile a qualche aspetto comico della vita, o tenero, o teneramente comico, colto ''insieme'', con una sola occhiata, senza neppure il bisogno di comunicarcelo. Non racconto questo a caso. Una certa emozionale, inesauribile, commossa o divertita "curiosità della vita", gioia di vedere le cose "insieme", ancora tutte al di qua della esperienza, (quanto parlammo poi dell'esperienza!), allo stesso modo e allo stesso momento, reciprocamente, alternativamente "spugne" e "specchi" delle nostre esistenze; l'ingordigia di accumulare "insieme" il "reale", gli infiniti aspetti del reale, culture, creature e nature, è stato il punto più alto e specifico del nostro incontro. E lo racconto soltanto perché, sullo sfondo della sua biografia ormai leggendaria, tra le righe dei bellissimi saggi e interpretazioni scritti su di lui da Moravia, Contini, Zanzotto, Leonetti, Fortini vorrei essere capace di riportare in vita la sua "ecceitas", l'irripetibilità di lui vivo e intero. ("Dovrei parlarti di me, cioè di un'infinità", lettera da Casarsa del 1945). ("Sono qui a suonare l'enorme tamburo del mio esserci", lettera da Casarsa del 1945. "Della mia gioia che è curiosità e amore della vita", lettera da Casarsa del 1945). Come è accaduto che io, ragazza borghese, senza dialetto, senza radici paesane, eterosessuale, e lui allora tutto pervaso e raccolto di poesia casarsese, materna, inesperto del mondo, impaurito di ciò che non conosceva, tutto compunto "del suo interno ignoto", con la sua mente forte, geniale, studente studioso, omosessuale, che ci siamo inseguiti per tutta la vita, scritti, raccontati, raggiunti, quando e appena era possibile e dentro la sua vita che sempre più si separava dalla mia, frenetica di lavoro, di mille altri incontri, di persecuzioni e provocazioni? Rileggendo le sue lettere ora lo capisco. Accanto a sua madre, unico amore della sua vita, ma figura fissa e simbolica, cristallizzata all'infanzia e di cui ha sempre tremato di proteggere l'infantile innocenza, io ero il luogo "della sua vitale confidenza", il filo rosso di un'accettazione totale. Colei a cui si racconta tutto ciò che non diventa letteratura, colei che ti pensa nelle ore del dolore, della solitudine o di intime esaltazioni, colei che ti segue, ti immagina, "ti sa". Nella prefazione all'Antologia delle sue poesie, uscita da Garzanti nel '70 lui scrive: "È rendermi conto di quanto fosse ingenua l'espansività con cui le scrivevo, proprio come se scrivessi per chi non potesse volermi che un gran bene ... " Il desiderio di Pasolini di essere amato aveva l'abissale violenza e passione della sua natura ed era pari a quello di amare. Era onnivoro: di facce, di gesti, di paesaggi, di odori, del passato, del presente, di letteratura, di linguaggi e di azioni, di ciò che era compiuto e di ciò che era incompiuto nel suo vitale

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