Pasolini e la madre (dal volume "Avec !es armes de la poésie... ", cit.). me, puoi accettare ora questo piccolo elogio: io, l'incostante, il politeista, il nomade, il libertino, sono molto fedele ai miei affetti. (Un elogio?, a parte il tono ridicolo con cui me lo sono fatto - "Io non sono mai stato fascista, signore" -, mi accorgo che non è altro che un dato della mia malattia). Comunque rispondi anche solo con due righe all'affetto paleozoico del tuo aff.mo Pier Paolo Cara Silvana, (Casarsa, 1948) scusami se torno a scriverti, ma la mia ultima lettera era per me troppo importante. Era l'ultimo filo di speranza: assurdo, è vero? Intanto le mie condizioni sono tremendamente peggiorate, per quanto un peggioramento non fosse nemmeno immaginabile. Mio padre, preso da una delle sue solite crisi, di malvagità o di pazzia, ormai non lo so, ci ha per l'ennesima volta minacciati di lasciarci e ha preso accordi per vendere tutti i mobili. Tu non sai a cosa si è ridotta mia madre. Io non posso più sopportare di vederla soffrire in questo modo disumano e indicibile. Ho deciso di portarla domani stesso a Roma, all'insaputa di mio padre, per affidarla a mio zio; io non potrò stare a Roma, perché mio zio mi ha fatto capire che non può tenermici, ma spero che per mia madre la cosa sia diversa. Da Roma non so dove andrò, forse a Firenze; come vedi sono in ben tristi frangenti (tieni conto del processo e delle condizioni di mio padre quando si troverà solo), e una voce amica può essere il filo che mi lega a qualche ragione di vivere. Perché non mi rispondi? Posso avere agito male - lo dico perché non riesco a pensare a qualche altra causa plausibile del tuo silenzio -, e in tal caso perdonami; è molto difficile comportarsi bene, essere ragionevoli, quando ci si trova nelle mie condizioni. Se dunque vorrai scrivermi qualcosa, il mio indirizzo, per qualche giorno almeno, sarà: presso Gino Colussi, via Porta Pinciana 34 Roma. Poi non so dove andrò e cosa farò; la mia vita è a una svolta più che decisiva. Spero che in qualche parte del mondo ci sarà un po' di lavoro, anche il più umile, per me; dicono che non si muore di fame. Così alla vigilia della mia avventura, ti mando i-miei saluti più affettuosi, anche per la tua famiglia. P'ier Paolo Carissima Silvana, ~ Roma IO febbraio 1950 avevo deciso di riscriverti questa mattina, perché mi ero pentito della mia ultima lettera, un po' troppo piena di disperazione; spero che tu me l'abbia perdonata. Oggi; senza una ragione, ero meno oppresso, avevo qualche linea di meno di sconforto. Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi. Sai, abito vicino al ghetto a due passi dalla chiesa di Cola di Rienzo: ti ricordi? Ho rifatto ormai due o tre volte quel nostro giro del '47, e anche se non ho più ritrovato quel cielo e quell'aria - dal tremendo grigio del ghetto al bianco di San Pietro in Montorio; l'ebrea seduta vicino a una catena contro la porta scura; il temporale con l'odore di resina, e poi Via Giulia e palazzo Farnese, quel palazzo Farnese che non si ripeterà più, come se la luce dopo il temporale lo avesse scolpito in un velo - mi sono stordito e consolato. Anche adesso ho la testa ronzante dei gridi di Campo dei Fiori, mentre spioveva. Ma questo calore che mi invade come un riposo, lo devo alla tua lettera: è qui sporca di rossetto e di crema, del carnevale di Versuta e dei fiori di Piazza di Spagna. A quei tempi, nel '47 è cominciata la mia discesa, che è divenuta precipizio dopo Lerici: giudicarmi ancora non mi riesce, neanche, come sarebbe facile, giudicarmi male, - ma penso che fosse inevitabile. Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l'ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua - come tu dici bene - che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta - e in questi ultimi tempi spesso - sono gelido, "cattivo", le mie parole "fanno male". Non è un atteggiamento "maudit", ma l'ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un'educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale... Questa mia tradizione di onestà e di rettezza - che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale - mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. Devi immaginare il mio caso un po' come quello di Fabio, senza psichiatri, sacerdoti, cure e sintomi e crisi, ma che, com'è di Fabio, mi ha allontanato, assentato. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle ecce15
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