Linea d'ombra - anno II - n. 8 - febbraio 1985

FEBBRAIO 1985/NUMERO 8 I rivistabimestraledi storie, immagini,discussioni LETTERE IN DITE DIPIERPAOLOPASOLINI --~ 1 ARGUEDAS / AYINIO / SEIFERr / PINTER/ OLLIER DOCTOROW / FONSECA / SISKIND/ MORIARrY I l . '

fl MONTEDISON• PROGETTOCULTURA fl ''GLIANNI DIPLASTICX' SCIENZA,GIOCQCREATIVITX Montedison è una delle industrie che più hanno contribuito, a livello mondiale, allo sviluppo delle materie plastiche. E con la scoperta di Giulìo Natta - Premio Nobel per la chimica del 1963 - Montedison ha saputo trasformare una invenzione in innovazione, in modificazione sociale ed economica. Il polipropilene, che Giulio Natta ha sintetizzato in Montedison, è infatti una di quelle tappe del progresso umano che segnano un'intera epoca, ne modellano il volto, ne promuovono la creatività. La collezione di oggetti in plastica - 1862-1950, tra cui si possono ammirare autentici piccoli capolavori della fantasia umana, costituisce dunque un capitale simbolico che Montedison ha voluto rendere pubblico sia attraverso mostre in Italia e all'estero, sia attraverso un prezioso catalogo dal titolo Gli anni di plastica, curato da Pasquale Alferj e Francesca Cernia per i tipi di Electa. ff monTEOISDn Gli anni di plastica. Era naturale che un gruppo, così profondamente coinvolto nelle tecnologie produttive, avvertisse il fascino e il dovere culturale di conservare le prime testimonianze di quella meravigliosa avventura del nostro tempo che è la storia delle materie plastiche.

Direttore Goffredo Fofi Comitato di redazione Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Pino Corrias, Piergiorgio Giacché, Filippo La Porta, Claudio Lolli, Maria Maderna, Claudio Piersanti, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Giorgio van Straten Direzione editoriale Lia Sacerdote Progetto Grafico Andrea Rauch/Graphiti Hanno collaborato alla preparazione di questo numero: Paola Agosti, Giancarlo Ascari, Fiorenza Auriemma, Gabriella Cantoni, Fulvia Farassino, Giorgio Ferrari, Pilin Hutter, Grazia Neri, Alberto Ottieri, Mario Schifano, Franco Serra, Art Spiegelman, Antonio Tabucchi, Mariolina Vatta, Francesca Zannese, la libreria Feltrinelli di via Manzoni (Milano). Editore Media Edizioni (staff editoriale: Edoardo Fleischner, Lia Sacerdote) Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Telefono 02/2711209-273891 Pubblicità Media Edizioni - Marco Fiorentino Abbonamenti Paola Barchi Composizione e montaggi Monica Ariazzi Ufficio Produzione Carlo Canarini Distribuzione nelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Giulio Carcano, 32 - Milano Telefono 02/8438141-2-3 Distribuzione nelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (MI) - Te!. 02/4473146 LINEA D'OMBRA rivista bimestrale di storie, immagini, discussioni Iscrizione al tribunale di Milano in data 5.2.1983 numero 55 Direttore responsabile Severino Cesari Numero 8 - lire 5.000 Abbonamenti Abbonamento annuale a sei numeri: lire 30.000 da versare sul conto corrente numero 25871203 intestato a "Linea d'Ombra" I manoscritti non vengono restituiti. Si risponde a discrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. LINEA D'OMBRA anno II febbraio 1985 numero 8 Sommario APERTURA 6 José Maria Arguedas Il sogno del pongo STORIE 20 27 30 32 40 49 Silvana Mauri Alberto Savinio Claude 01/ier fan Orto Rubem Fonseca Jerry Moriarty POESIA 23 52 Jaroslav Seifert Mi/o De Angelis BOTTEGA 14 34 53 69 9 12 57 61 65 Pier Paolo Pasolini Aaron Siskind Harold Pinter E.L. Doctorow Gianfranco Bettin Vittorio Dini Franco Brioschi Marino Sinibaldi Cesare Pianciola CARATTERI 47 Grazia Cherchi SCHEDE Su Pasolini. Storia di una corrispondenza Inno al piede; Celebri fiabe Il lapsus Storie Incontro nell'Amazzonia Jack Survives Poesie Poesie Lettere a Silvana Cinquant'anni di fotografia a cura di Antonio Ria Scrivere per il teatro America, America ... a cura di Marina Bonatti e Annamaria Costanza Scettico verde Un maestro e un compagno Vent'anni dopo La storia è un romanzo? L'identità debole Il premio 74 Narrativa - Nadine Gordimer (P. Splendore), Thomas Bernhard (M. Maderna), Andrea De Carlo (G. Straccali), Wole Soyinka (I. Vivan). Saggistica - Tzvetan Todorov (A. Triulzi), Guido Almansi (M. Barenghi), Massimo Mila (G. Armani). Teatro - Luca Ronconi (G. Piccioli), Santagata e Morganti (S. De Matteis). Ci~ Francis F. Coppola (R. Turigliatto), Sergio Leone (B. Cartosio), Francesco Rosi (A. Jona). Fumetto - Munoz e Sampayo (G. Fofi). 91 INCHIESTA Filippo La Porta, Marino Sinibaldi (a cura di) IMMAGINI Ultime leve. Un questionario ai giovani scrittori italiani: Fabrizia Ramondino, Daniele Gorret, Claudio Lolli, Mirella Serri, Pino Corrias, Giorgio van Straten, Pier Vittorio Tondelli, Beppe Sebaste, Alfredo Antonaros. L'immagine di copertina è di Mario Schifano (Facciata sul giardino cinese, 1984, part.). Le immagini da pag. 9 a pag. 13 sono di Roberto Da Pozzo. 97 98 Libri da leggere Gli autori di questo numero

ILSOGNODELPONGO José Maria Arguedas Alla memoria di don Santos Ccoyoccossi Ccataccamara, consiglierescolastico della comunità di Quispicanchis, Cuzco. Don Santos venne a Lima sei volte; ottenne di essere ricevuto dai ministri dell'Istruzione e da dife presidenti della Repubblica. Parlava solo quechua 1 • Quando fece il primo viaggio a Lima aveva più di sessant'anni; tornava al suo villaggio portando in spalla parte del materiale scolastico e delle dotazioni che riceveva. È morto due anni fa. La sua maestosa e tenerafigura continuerà dall'aldilà aproteggere la sua comunità e ad accompagnare coloro che ebbero lafortuna di conquistarsi il suo affetto e di ricevere l'esempio della sua tenacia e saggezza. rn n omino s'incamminò verso la tenuta del padrone. Sic- ._. come era servo andava a compiere il suo turno di pongo 2 , di servitore nella grande casa. Era piccolo, di corporatura misera, di animo debole, un essere penoso, vestito di stracci. Il gran signore, padrone della tenuta, non potè trattenersi dal ridere quando l'omino lo salutò nel ballatoio della casa. - Sei una persona o che diavolo sei? - gli chiese alla presenza di tutti gli uomini e le donne al suo servizio. Umiliandosi, il pongo non rispose. Intimorito, con lo sguardo vitreo, rimase in piedi. - Vediamo - disse il padrone -, sarà in grado di lavare le pentole o almeno di usare la scopa con quelle mani che sembrano buone a nulla. Portati via questa schifezza! - ordinò al capoccia della tenuta. Il pongo inginocchiandosi baciò le mani al padrone e tutto chino seguì il capoccia nella cucina. L'omino era piccolo di corporatura, ma la sua forza era quella di un uomo normale. Qualsiasi cosa gli ordinassero la faceva bene. Ma aveva un'ombra di spavento sulla faccia; alcuni servi ridevano nel vederlo così, altri ne avevano pena. "Orfano figlio di orfani; frutto del vento della luna dev'essere il ghiaccio dei suoi occhi, il cuore pura tristezza", aveva detto vedendolo la cuoca meticcia. L'omino non parlava con nessuno; lavorava senza aprir bocca; mangiava in silenzio. Eseguiva tutti gli ordini: "Sì, papacito, sì mamacita3 ", era quanto soleva dire. Forse per quella sua espressione spaventata e per i suoi indumenti laceri e probabilmente anche perché non voleva parlare, il padrone provò per l'omino uno speciale disprezzo. Al crepuscolo, quando i servi si riunivano nel ballatoio della casa padronale per recitare l'Ave Maria, a quell'ora, il signore martirizzava sempre il pongo davanti alla servitù, lo sbatacchiava come un pezzo di carne. L'afferrava per la testa e lo costringeva a piegarsi e, mentr'era lì in ginocchio, gli dava dei piccoli calci in faccia. - Io credo che tu sia un cane. Abbaia! - gli diceva. L'omino non riusciva ad abbaiare. - Mettiti a quattro zampe - allora gli ordinava. Il po~go obbediva e faceva qualche passo a quattro zampe. ,.,,. Tndia dellaprovincia di Camajarca , (foto )ii Cdr/a Pallini I agenzia Grazia ,Neri). j I, - Trotterella di sbieco, come un cane - continuava a ordinargli il proprietario. L'omino sapeva correre imitando i cagnolini dellapuna4. Il padrone rideva di cuore, le risate gli scuotevano il corpo. - Torna indietro! - gli gridava quando il servo trottei;ellando raggiungeva il fondo del grande ballatoio. ' Il pongo ritornava, sempre di sbieco. Arrivava ansante. Alcuni servi, suoi pari, recitavano nel frattempo l'Ave Maria, lentamente, come vento che respira nel cuore. - Drizza le orecchie, viscaccia5! Ora sei una viscaccia! - ordinava il signore all'omino sfinito. - Sollevati sulle zampe, congiungi le mani. Come se nel ventre della madre avesse subito l'influsso modellatore di una viscaccia, il pongo imitava esattamente la figura di una di queste bestiole, quando se ne stanno quiete, in atteggiamento di preghiera sulle rocce. Ma non riusciva a drizzare le orecchie. Colpendolo con lo stivale, con un calcio leggero, il padrone lo faceva ruzzolare sul pavimento di cotto del ballatoio. - Recitiamo il Padrenostro - diceva poi ai suoi indios che aspettavano in fila. Il pongo si alzava adagio e non poteva pregare perché non si trovava al suo posto e quel posto non corrispondeva a qualcuno. All'imbrunire i servi scendevano dal ballatoio nel patio e si dirigevano alle loro casupole. - Vattene, verme! - ordinava allora il padrone al pongo. D così tutti i giorni il padrone faceva sgambettare il nuovo pongo davanti alla servitù. Lo costringeva a ridere, a simulare il pianto. Ne fece lo zimbello dei colonos6 suoi pari. Ma ... una sera, all'ora dell'Angelus, quando tutto il personale della tenuta affollava il ballatoio, quando il padrone cominciò a fissare il pongo col suo sguardo intenso, quell'omino parlò con molta chiarezza. Sulla faccia aveva ancora un'ombra di spavento. - Signore, dammi il permesso, padrecito, di parlarti. Il padrone non credette alle sue orecchie. - Cosa? Sei stato tu a parlare o un altro? - chiese. -Ti prego,padrecito, dammi il permesso di parlarti. Voglio parlare con te - ripetè il pongo. - Parla ... se ne sei capace - rispose il proprietario. - Padre, mio signore, anima mia - cominciò a dire l'omino. 1 La lingua degli Inca tuttora parlata dagli indios. 2 Indios legati da servitù a una proprietà terriera. 3 Papacito, padrecito, mamacita, madrecita, diminutivi rispettosi e affettuosi, equivalenti al batjuska russo, con cui gli indios usano riyolgersi ai bianchi. 4 L'altipiano andino. 5 Roditore simile'alla lepre, con orecchie corte e coda lunga come quella di un gatto. 6 Indios servi della tenuta.

8 APERTURA/ARGUEDAS - Stanotte ho sognato che eravamo morti tutti e due, insieme eravamo morti. - Tu? Con me? Racconta, indio - gli disse il gran padrone. - Siccome eravamo uomini morti, mio signore, siamo apparsi nudi, insieme, nudi davanti al gran padre San Francesco. - E poi? parla! - ordinò il padrone, con fastidio misto a curiosità. - Quando ci ha visti morti, nudi, insieme, il gran padre San Francesco ci ha osservati con quei suoi occhi che vedono e misurano non si sa quali distanze. Ci esaminava, te e me, soppesando, credo, il cuore di ognuno e quel che eravamo e quel che siamo. Da uomo ricco e potente tu, padrone, affrontavi il suo sguardo. - E tu? - Non ho idea di come mi comportavo, signore. Non ho idea di cosa valgo. - Bene. Continua. - Allora poi San Francesco ha detto con la sua bocca: "Venga il più bello di tutti gli angeli. Accompagni l'eccelso serafino un altro angelo piccolo che sia come lui il più bello. L'angelo piccolo rechi in mano una coppa d'oro e la coppa d'oro sia colma di melassa purissima". · - E allora? - chiese il padrone. Gli indios servi ascoltavano il pongo con attenzione, impassibili ma timorosi. - Padrone, non appena il gran padre San Francesco ha dato l'ordine è apparso in cielo un angelo sfolgorante come il sole. Si è avvicinato a passi lenti fino al cospetto del Santo. Dietro l'angelo grande camminava quello piccolo, bello, luminoso, come il soave splendore dei fiori. Aveva in mano una coppa d'oro. - E allora? - ripetè il padrone. - "Angelo grande, col miele della coppa d'oro cospargi questo gentiluomo. Le tue mani siano leggere come piume quando toccheranno il suo corpo." Così ha ordinato il gran padre. E allora l'angelo eccelso, prendendo con le mani il miele, ti ha lustrato tutto, dalla testa alle unghie dei piedi. E il tuo corpo si è innalzato, da solo; il suo fulgore risaltava nella luce del cielo come se fosse stato d'oro, trasparente. - Certo, non poteva che esser così - disse il padrone e poi chiese: - E a te? - Mentre tu splendevi nel cielo, il gran padre San Francesco ha di nuovo ordinato: "Venga l'angelo più miserabile e infimo del cielo e porti con sé una latta piena di escrementi umani". - E poi? - Un angelo malconcio, vecchio, con le gambe tutte squamose, che non ce la faceva più a tenere spiegate le ali, è arrivato davanti al Santo; è arrivato sfinito, con le ali grondanti, portando in mano una grande latta. "Senti, vecchio - ha ordinato San Francesco a quel povero angelo - imbratta il corpo di quest'omino con gli escrementi che hai nella latta; tutto, da cima a fondo, ricoprilo come puoi. Svelto!" Allora con le sue mani nodose il vecchio angelo, tirando fuori dalla latta gli escrementi, ha cosparso il mio corpo, come quando si rivesto- ,,.,. no grossolanamente le pareti di una casupola. - Certo, proprio non poteva che esser così - affermò il padrone. - Continua! O è finito il sogno? - No, padrecito, mio signore. Quando di nuovo, anche se in modo diverso, siamo apparsi insieme, tutti e due davanti al gran padre San Francesco, il Santo ci ha osservati di nuovo, sia te che me, per un bel pezzo. Col suo sguardo che abbracciava il cielo, non so fin dove nel profondo di noi sia sceso, unendo la notte con il giorno, l'oblio con la memoria. E poi ha detto: ''Tutto quello che gli angeli dovevano fare con voi è stato fatto. Ora leccatevi a vicenda, lentamente, a lungo". Il vecchio angelo è subito ringiovanito; le sue ali hanno ricuperato il nero delle piume, l'antico vigore. San Francesco lo ha incaricato di sorvegliare che la sua volontà fosse compiuta. (traduzione di Laura Gonçalez) Dai Relatos completos (1974), per gentile concessione di Giulio Einaudi Editore MARIETTI Narrativa Charles Sealsfield Tokeah e la Rosa bianca Introduzione di Gabriella Rossetto Serto/i Pagine XVI+ 372, lire 23.000 Continue e irresistibili avventure in un'America di «frontiera» raccontata da un ex-prete austriaco dell 'Ottocento, collaboratore di Metternich, amico di Bonaparte, ma soprattutto coraggioso avventuriero e imprevedibile scrittore. Rudolf Brunngraber Karl e il ventesimo secolo Prefazione di Cesare Cases Pagine XVIII+ 180, lire 17.000 Un « piccolo uomo qualsiasi» partecipa alla prima guerra mondiale ed è travolt,o dalla crisi pos_t,bellica.. Una «cascata di storia che intesse vertiginosamente il percorso della vita individuale con i processi collettivi che l'alienano.» DistribuzioneP: .D.E.,DIF.ED.(Roma),Magnanell(iTO). MARIETTI

SCETTICVOERDE Gianfranco Bettin Una sera di quest'inverno, in quattro o cinque amici, parlavamo del tempo e di politica. Erano i giorni più freddi e nevosi di gennaio, quelli del Bel Paese in tilt per le memorabili avversità atmosferiche. In un tono tra cinico e ironico qualcuno disse: "Bellissimo! Io sono sempre contento quando il genere umano viene messo in difficoltà dalla natura. Mi spiace per chi è più esposto, poveri, anziani, e poi per gli animali ... ma per il resto, sono contento che queste orribili città si blocchino". Questo nostro amico è sempre un po' estremista ma certo nella sua esasperazione raccoglieva un diffuso malcontento verso gli effetti della civiltà umana sull'ambiente naturale. Forse, addirittura sottoscriverebbe quanto Orwell in apertura di La fattoria degli animali fa dire al Vecchio Maggiore, il saggio maiale, agli animali riuniti: "Compagni, di qual natura è la nostra vita? Guardiamola: è misera, faticosa e breve. Si nasce e ci vien dato quel cibo appena sufficiente per tenerci in piedi, e quelli di noi che ne sono capaci sono forzati a lavorare fino all'estremo delle loro forze; e, nello stesso istante in cui ciò che si può trarre da noi ha termine, siamo scannati con orrenda crudeltà. (... ). Fa forse ciò parte dell'ordine della natura? Forse questa nostra terra è tanto povera da non poter dare una vita passabile a chi l'abita? No, compagni! Il suolo è fertile, il clima è buono, e può dar cibo in abbondanza a un numero d'animali enormemente superiore a quello che ora l'abita. (... ) Perché allora dobbiamo continuare in questa misera condizione? Perché quasi tutto il prodotto del nostro lavoro di viene rubato dall'uomo. Questa, compagni, è la risposta a tutti i nostri problemi. Essa si assomma in una sola parola: uomo. L'uomo è il solo, vero nemico che abbiamo. Si tolga l'uomo dalla scena e sarà tolta per sempre la causa della fame e della fatica". Forse, il modo migliore d'incominciare queste riflessioni sul diffondersi di una nuova sensibilità ''verde'' era proprio quello di dare la parola agli animali, sia pure per il tramite di Orwell. Ma, del resto, i capodogli che vanno a morire volontariamente sulle coste, rifiutando i mari inquinati, non parlano già un linguaggio eloquente? La novità di questi anni è che, nella stessa direzione, cominciano a esprimersi anche molti uomini. Dopo un lungo periodo di al- !armi caduti nel nulla, di battaglie troppo grandi condotte da esigue minoranze, un movimento vasto, sovranazionale, crescente ha riproposto con forza nuova la questione ecologica. Cos'è accaduto nel frattempo? A costo di dar ragione al Vecchio Maggiore, potremmo considerare alcuni dati relativi ai rapporti tra gli uomini e tra l'uomo e l'ambiente. Entro la fine del secolo i quattro miliardi e mezzo di terrestri d'oggi saranno divenuti più di sei miliardi. Date le sperequazioni esistenti, i contrasti tra paesi ricchi e paesi poveri risulteranno acuiti. Oggi, il 6 per cento della popolazione mondiale consuma un terzo delle risorse disponibili e, mentre la fame miete vittime a milioni nei paesi poveri, il 90 per cento dei cereali è usato per l'allevamento dei bovini per la produzione di carne dei paesi ricchi. Nel frattempo, diminuisce a vista d'occhio lo spazio utile: ogni anno 300.000 ettari di terreno coltivabile vengono distrutti dall'urbanizzazione. Le foreste tropicali, massima riserva di ossigeno, vengono distrutte al ritmo di 16 milioni di ettari all'anno (pari a circa mezza Italia), un quarto delle terre emerse è minacciato dalla desertificazione mentre una specie vivente ogni quarto d'ora scompare e 25.000 specie vegetali e 1.000 specie animali sono DISCUSSIONE/BETTIN minacciate di estinzione. Nel contempo, vengono immessi continuamente sul mercato prodotti chimici di cui s'ignorano gli effetti a lunga scadenza - per non parlare delle scorie nucleari - e l'ambiente non riesce a smaltire i veleni che in dosi sempre maggiori produce la nostra civiltà: ossidi di azoto dei fertilizzanti, fosfati dei detersivi che uccidono i mari insieme agli scarichi industriali e agricoli, ossidi di zolfo delle combustioni industriali che distruggono le foreste, anidride carbonica in aumento che provoca rovinose alterazioni climatiche. Questi dati, di recente resi pubblici dà un dossier del W.W.F. predisposto da studiosi di tutto il mondo (da Rachel Carson a Barry Commoner a Laura Conti e altri), hanno avuto un'eco scarsa nei mass medià.e nella opinione pubblica. La crescita di una consapevolezza ecologica sembra ancora procedere soprattutto in un duplice modo: attraverso la documentazione e la sensibilità individuali o di gruppo (di gruppi locali, spesso vivaci e tenaci, ma quasi sempre ridotti nel numero degli aderenti) e attraverso gli choc provocati ricorrentemente nell'opinione pubblica da particolari disastri ecologici (per esempio, ultimi, il caso di Bhopal in India o, per restare in Italia - e per non dire Seveso - la vicenda del povero mare Adriatico, agonizzante per gli scarichi velenosi che da venti anni invadono le sue acque). Tra l'allarme angosciato ma generico dei più e la coscienza più certa di singoli e gruppi attivi nei movimenti per la difesa dell'ambiente, permane aperto uno spazio enorme, non colmato da riflessioni e sintesi. Specialmente povera sembra, in particolare, la ricezione di questi temi - e di questi dati oggettivi - nella cultura italiana, compresa quella più impegnata e di sinistra. È sorprendente il disinteresse dimostrato da saggisti, recensori, intellettuali (anche di "nuova sinistra") verso alcuni testi divenuti invece, per vie sotterranee, di passa-parola e con poche segnalazioni dei media, veri e propri libri - guida. Cito anzitutto Questo pianeta, di Laura Conti, Editori Riuniti, ma anche Entropia di J. Ryfkin, Mondadori, e // punto di svolta di F. Capra, Feltrinelli, per non parlare del meno recente ma fondamentale Energia e miti economici di N. Georgescu-Roegen, Boringhieri, e dei numerosi contributi di Aurelio Peccei. È sperabile che miglior sorte tocchi ora al recentissimo Tempi storici, tempi biologici di Enzo Tiezzi edito da Garzanti. È altresì significativo che molte simpatie suscitate tra gli intellettuali dal movimento "verde" risultino motivate soprattutto dall"'aria nuova" che i Verdi potrebbero 9

IO DISCUSSIONE/BETTIN far entrare nella politica italiana (cfr. il sondaggio-inchiesta di "La nuova ecologia" n. 8, ottobre 1984), modificando le regole stantie e omertose di un gioco politico-istituzionale oggi bloccato. Tutto vero, ma limitante. Il contenuto fondamentale del movimento verde - in Europa e in Italia - sta nei concetti nuovi che pone in primo piano. Anzitutto, il concetto di "limite": le risorse della terra non sono infinite e la civiltà attuale guidata da un'idea di progresso che coincide con l'accumulazione sempre maggiore di quantità di beni materiali si avvicina rapidamente a questo limite. Scienza e tecnologia sono gli strumenti di quest'idea, che è comune ai sistemi economici capitalisti e socialisti. I movimenti verdi sorgono e si diffondono quando sorge e si diffonde la coscienza che la contraddizione fondamentale del nostro tempo è quella che oppone la civiltà umana nel suo complesso alla vita naturale - alla vita tout court - sul pianeta. Una vita posta in forse, per il futuro, dalla minaccia atomica ma già ora concretamente degradata a ogni attimo che passa. Non c'è solo l'orologio degli scienziati pacifisti ad annunciare che siamo a pochi minuti da una mezzanotte nucleare; esiste pure un orologio biologico, e segnala guasti di portata incalcolabile. Riconoscere e denunciare questa capitale contraddizione non implica, come taluno crede, perdere di vista i contrasti interni alle società umane - tra nord e sud del mondo, i contrasti di classe, etnici, di generazione, di sesso. Significa inscriverli in quel contesto e porre il problema di un approccio globale. Il vero spettro che si aggira per il mondo - compreso il mondo comunista - è il "limite". "Un ciclo di materia sostenuto da un flusso d'energia": questa, ricorda Laura Conti, è la definizione che la biologia moderna dà della vita. Ci avviciniamo pericolosamente al limite in cui la materia si degrada irreversibilmente e l'energia dissipata diviene inservibile. La termodinamica, infatti, la più radicale e inascoltata critica della fisica newtoniana (che tuttora fornisce il paradigma scientifico e l'approccio culturale globale dominanti in quasi tutti i campi del sapere), la termodinamica ci dice che l'energia disponibile è limitata e che in natura tutte le cose possono essere trasformate soltanto da uno stato utilizzabile a uno non utilizzabile. Lo smog che annerisce i cieli non è altro che energia trasformata e resa inutile, anzi nociva: I combustibili fossili, formatisi in milioni di anni e ora - questione di pochi decenni - in via di esaurimento, diverranno qualcosa di simile. Una società egualitaria, a basso consumo di energia, fondata su un nuovo equilibrio tra uomo e natura, tra materia ed energia; l'uomo - custode dell'ambiente e dei cicli naturali della vita: queste le radicali innovazioni che il movimento verde propone. Nella nostra conversazione invernale, tra amici, questi temi passavano come sfondi acquisiti. I testi base della nuova ecologia li abbiamo almeno sfogliati e orecchiati e non era su questo che manifestavamo scetticismo. Militanti di vecchia data di un gruppo verde-alternativo, ci sentivamo insoddisfati del rapporto da noi attivato tra le due idee guida dei Verdi: tra l'agire localmente e il pensare globalmente. Una sorta di smarrimento ci ha preso, ricorrentemente, in questi anni. Giunti un po' casualmente ad avere una rappresentanza istituzionale locale, ci siamo mossi a cavallo tra movimento, società e istituzioni, privilegiando le tematiche ambientali e urbanistiche. Continuamente, ci siamo trovati di fronte a due difficoltà prevalenti: la prima, il rapporto tra problemi concreti, specifici, e la dimensione globale della tematica ecologica. La seconda: la possibilità di una reale trasformazione dei concetti-guida e delle decisioni del governo locale. La prima difficoltà si legava alla nostra sensazione di non avere uno sfondo culturale adeguato, che coltivasse la nostra azione locale aiutandola a crescere, a farsi avvertita del suo senso globale. Alcuni di noi, di radice "nuova sinistra", ricordavano il dialogo tra locale e globale assicurato in altri anni da riviste e quotidiani di movimento o da ricerche e riflessioni di singoli intellettuali. Oggi, malgrado la recente crescita d'interesse verso i Verdi, non ci sembrava di vedere qualcosa del genere. L'arcipelago verde cresce da sé, quando può, ma le sue tematiche non hanno ancora sfondato nella cultura, almeno non in quella della sinistra (storica e nuova). Ci sarebbe bisogno di sociologi, economisti, urbanisti, architetti, giuristi, di intellettuali competenti che abbiano riflettuto sulla nuova ecologia. Vi sono da "riciclare" (altro concetto chiave), insieme a scorie e rifiuti, piani economici e urbanistici, leggi, sistemi di tutela e di governo del territorio. Quanto sia difficile - ma altrettanto urgente - ce lo ripetevamo, parlando fra noi, tra un caffè e un sottofondo di musica, dei problemi locali in cui siamo immersi. "Che poi - disse qualcuno - sono locali per modo di dire: ogni volta che si tocca qualcosa, qui, si muove mezzo mondo!" Il nostro ambito locale, infatti, è la cintura urbana tra Venezia e Porto Marghera, il bordo difficile che unisce una delle città più celebrate e chiacchierate al mondo con un'area industriale fra le maggiori e più ammalate d'Europa (ammalata in un duplice senso: perché la transizione al postindustriale falcidia il lavoro nelle vecchie grandi fabbriche e perché, e forse soprattutto, ammalata d'inquinamento: l'aria e l'acqua, in mare e in laguna, il vento, la pioggia, la nebbia sono infiltrati di acidi e scorie). È quasi impossibile far politica "localmente" senza avere un approccio più complesso. Ed è giusto che sia così: è giusto che un modo vecchio di far politica, astratto, quasi senza radici, privo di progetti e tuttavia ambizioso, mirante - addirittura! - a una Rivoluzione, non trovi di che riciclarsi, non trovi spazio. È un sintomo della concretezza e gravità dei problemi aperti, della loro urgenza. Solo i ragazzini possono salvare il mondo; tutti gli altri, al massimo, studiando e predisponendo progetti, piani, atti, delibere, stimolando la coscienza collettiva, possono trasformare una città, un quartiere, una regione. Può darsi che così, infine, anche il resto del mondo si salvi. "lo ho poca fiducia - disse il nostro amico estremista - gli intellettuali, gli specialisti, sono di un opportunismo becero. A parte qualcuno, ognuno bada al suo mestiere e al-

la sua convenienza. Non gli passa per la testa di ripensare al proprio campo d'intervento come a una parzialità inserita in un contesto, anzi in un eco-sistemà. A meno che qualcuno non li paghi per questo ... " In effetti, di opportunisti colti ne abbiamo incontrati parecchi in questi anni: l'avvocato di sinistra che fa un ricorso per la ditta abusiva; il tecnico che fa una perizia rassicurante, per dire che l'Adriatico non soffre poi molto per i fanghi Montedison; il noto naturalista che partecipa, partecipe, ai dibattiti pre-elettorali di forze politiche responsabili di distruzioni ambientali estese. E così via. Su questo punto, dunque, la nostra conversazione - quasi una riflessione intima, com'è giusto che avvenga in una notte gelida e nevosa - restava su toni scettici. Dove il tono volgeva ancor più al brutto, al pessimismo, era invece sulla possibilità di utilizzare la politica, le istituzioni locali, ai fini di una trasformazione "verde". Insieme agli opportunisti, nell'attività politico-istituzionale abbiamo incontrato nugoli di mini-burocrati, di ottusi esecutori di direttive provenienti dall'alto, dal partito o dal capo-corrente - e perfino qualche delinquente. Insoddisfatti di noi, dei nostri limiti di cultura e di efficienza, ci siamo spesso scoperti disgustati dall'aria respirata nelle istituzioni. Anche a livello locale - ci ripetevamo - in politica si è stimolati a dare il peggio di sé, proprio come avviene quando si sta in compagnia di certi individui. A esprimere il peggio delle proprie attitudini morali. Si diventa furbi e aggressivi, ci si convince che il fine giustifica i mezzi (e si tende a scordare che il mezzo può stravolgere il fine), si divide il mondo in partiti misurati in base a rapporti di forza, si lottizzano i bisogni, i desideri, perfino le necessità evidenti, ci si ritrova in un tempo relativo del tutto estraneo ai tempi della vita reale. "Nevica di nuovo", disse qualcuno, troncando il discorso e indicando il cielo. "Chissà che non faccia bufera!" disse l'estremista. La casa dov'eravamo, ai piani alti di una specie di grattacielo, dominava un'ampio panorama. Di là di un finestrone, sotto di noi, la città disordinata, patinata dalla neve, si illuminava di piccole luci. Verso il centro, sembrava riposare sotto i fiocchi lenti e miti, sgranati piano da una notte intorpidita dal freddo. Un orizzonte vicino, invece, si arrossava nei grandi fuochi che, sopra le fabbriche, divoravano il buio e il fumo e bruciavano i.fioèchi di neve. Più in là, trascinata lon- ~·tano dadunghi veloci nastri gialli delle tangentiali, _laperiferia scompl;l_rivaiÌ\ una selva ... di riflessi e bagliori artificiali. Eravamo in silenzio da un po', quando l'amico padrone di casa - il più distaccato di noi dalla politica attiva, si alzò, prese un libretto e lesse: "Un giorno Gasan istruiva i suoi seguaci: Quelli che parlano contro l'assassinio e che desiderano risparmiare la vita di tutti gli esseri consapevoli hanno ragione. È giusto proteggere anche gli animali e gli insetti. Ma che dire di quelle persone che ammazzano il tempo, che dire di quelli che distruggono la ricchezza e di quelli che distruggono l'economia pubblica? Non dovremmo tollerarli". "Bello, no? Sembra scritto per noi, oggi", aggiunse. "È una storia zen". "Già, il problema è però di fermarli, quelli". Come fare, ci chiedevamo, per usare la politica senza farci cambiare da essa; come usarla contro chi ammazza il tempo, l'economia pubblica, la vita? Tornava in mente l'appello finale del saggio maiale di Orwell, il Vecchio Maggiore: "Che fare dunque? (... ) Questo è il mio messaggio a voi, compagni: Rivoluzione!" Qualcuno lo disse. "Mah - rispose il nostro ospite zen - sembra il comunismo, che non è stato un gran passo avanti ecologico. La frase di Marx che preferisco è la meno marxista di tutte: 'L'uomo sia per l'uomo un soccorritore e un amico'". "Bella anche questa - disse un altro - sembra San Francesco". Era ormai molto tardi e dovevamo andarcene. Discutemmo ancora un poco e forse le nostre conclusioni provvisorie - scettiche e verdi - potrebbero concludere anche queste note-resoconto, tra il locale e il globale. Probabilmente - così ci lasciammo - era davvero la rivoluzione la risposta al problema. Ma non quella che, secondo l'immagine ··di Marx, era la "locomotiva della storia", destinata a esaltare le forze produttiye e a stabilire il dominio dell'uomo sulla natura. Contro quest'immagine, Walter Benjamin invitava a riflettere: "Forse si tratta di DISCUSSIONE/BETTIN tutt'altro. Forse le rivoluzioni sono l'afferrare il freno di emergenza da parte del genere umano che viaggia su questo treno". In questa rivoluzione ci si poteva riconoscere, stabilimmo; la storia non ha bisogno di correre più in fretta, figuriamoci poi le forze produttive! Rallentare i ritmi, rispettare i cicli biologici, risparmiare energia e tempo. Non era tutta farina dei nostri sacchi -neppure la citazione da Benjamin, che dobbiamo ad Alex Langer - ma ci mise d'accordo. Finì così la nostra conversazione scettico-verde; ci salutammo e uscimmo nella notte, sotto la neve che, in effetti, minacciava bufera. Le illustrazioni di questa sezione sono di Roberto Da Pozzo . 11

12 DISCUSSIOME/DINI ( 1)l ■ 1'1!·1 ii i il•l11 ) ll<•Ji'1I J,N l t•l Vittorio Dini La mia generazione - di quarantenni degli anni Ottanta, giovani già maturi nel '68 - ha incontrato nella sua esperienza molti compagni e anche qualche maestro, peraltro non sempre buon maestro. Intendo maestro non nel senso generico di chi insegna qualcosa di intellettualmente valido o comunque utile per la ricerca e per capire ciò che si pensa, ciò che avviene sotto i nostri occhi, persino qualche regola di comportamento. Fortunatamente la letteratura passata, e anche quella presente, è sterminatamente ricca di autori e opere che rispondono a tali.requisiti. Per maestro non intendo neppure soltanto colui che rappresenta una guida politica, che indica in maniera precisa una meta, un obiettivo strategico da perseguire. Anche di queste figure ne abbiamo avute: il bilancio e la valutazione delle loro qualità è aperto e ha come parametro non solo l'efficacia della loro riflessione e azione ma anche la qualità degli obiettivi che hanno proposto. Indubbiamente queste - la chiarezza intellettuale e la capacità di proposta pratica - sono doti importanti del maestro, ma non sono sufficienti a caratterizzarne l'essenza, non sono le qualità per cui è maestro. Credo che la qualità fondamentale sia nel fatto che del maestro riconosciamo la base rigorosamente morale oltre che intellettuale dei problemi che ci propone. Sul contenuto delle sue proposte potremo avere anche dubbi e perplessità, potremo anche verificare un disaccordo netto, ma decisivo è il fatto che sappiamo e verifichiamo che dietro quelle proposte c'è, insieme al rigore intellettuale, un pieno rigore morale, che quelle proposte non sono strumenti per un fine diverso, per affermare una verità di parte o di gruppo, qualcosa di presupposto. Capisco il pericolo di sostenere una sorta di neutralità e di elogio dell'indipendenza, ma è un fatto che, se guardo al passato recente e al presente, è solo in uomini "senza tessere e senza partito", che riconosco la figura del maestro. Per il passato, molti sono quelli indicati e felicemente ritratti da Norberto Bobbio prima in Italia civile (Lacaita, Manduria 1964) e ora in Maestri e compagni (Passigli, Firenze 1984); molti ma non tutti perché Bobbio esplicitamente nella "prefazione" a questo ultimo volume, distingue e classifica autonomamente maestri e compagni. Per la mia generazione, aggiungerei Raniero Panzieri e Pier Paolo Pasolini. Ma soprattutto vedo come attuale e spero non ultima figura di maestro e compagno insieme proprio Norberto Bobbio. In effetti sono molte le connotazioni che accomunano Bobbio ai suoi "maestri e compagni"; e spesso affiora nei suoi ritratti un esplicito se pur contenuto autobiografismo, anche se come parallelo e confronto tra la loro esperienza e quella dello stesso Bobbio. Cultura minoritaria, certamente; di più, cultura di perdenti. Credo che Bobbio non avrebbe difficoltà né esitazione a collocarsi nella "schiera di coloro che, nella storia del nostro paese, hanno sempre torto. Hanno torto e sanno di averlo"; schiera nella quale inserisce Calamandrei (Maestri e compagni, pag. 142). E non c'è compiacimento aristocratico, a meno che non si intenda per aristocrazia il lucido e consapevole - ma tutt'altro che compiaciuto - riconoscimento che si è in una posizione di minoranza e quasi di impotenza, e tuttavia non si intende né tacere né adeguarsi alla maggioranza. Perché coloro che hanno avuto ragione - meglio, forse, che hanno vinto - hanno prodotto risulta- " ... ti in gran parte negativi e raggiunto es1t1 spesso preoccupanti. In tutti gli schieramenti, ma anche in quello antifascista e nella sinistra. Così Bobbio ha potuto coerentemente e rigorosamente, da antifascista, dissentire · dall'uccisione di Giovanni Gentile e dall' "orrenda esposizione di cadaveri di piazzale Loreto"; sempre da antifascista ma anche da critico dell'ergastolo, sostenere oggi l'opportunità della liberazione di Reder, o, da socialista e democratico, dissentire dalla liberalizzazione dell'aborto. Si può essere d'accordo o meno con questa e altre prese di posizione; ma ciò che importa è che esse sono ispirate sempre da sforzo di rigore intellettuale e da una valutazione morale. Anche in questo caso vale per Bobbio ciò che lui attribuisce a Calamandrei (pag. 128): "nel parlare di cose politiche la valutazione morale prevale sul giudizio di opportunità". Con l'aggiunta, rilevante, di un riferimento teorico e culturale altrettanto rigoroso:·il pensiero di Bobbio è un pensiero tutt'altro che "ingenuo" come quello di Calamandrei. Sdegno morale, rigore morale, valutazione morale, tutti termini e qualità ricorrenti nei ritratti; ma anche bisogno di verità e fede nella ragione, da bisogno a verità e da fede a ragione: "i due caratteri essenziali dell'uomo libero": contraddistinguono l'uomo libero, rispettivamente "dal conformista e dal fanatico". Visione illuministica della funzione dell'intellettuale? Più determinante mi pare per Bobbio la funzion_ecritica dell'intellettuale. L'intellettuale è quasi disarmato di fronte alla forza del potere politico, che il realismo di Bobbio d'altra parte si rifiuta di riconoscere nella sua essenza come violenza e come oppressione di classe; l'unica forza dell'intellettuale è la capacità di critica del potere e soprattutto dei suoi eccessied abusi. Perciò il realismo e il liberalismo di Bobbio. non si sono mai appiattiti a statalismo e difesa delle istituzioni così come esse sono. li problema non si riduce mai ai termini dell'analisi del sistema politico e della sua possibile riforma: prima e alla base c'è una riproposta del rapporto tra etièa e politica. La passione teorica ed etica è superiore a quella pratica e politica. Come per molti dei suoi "maestri e compagni", per Bobbio non ,,

c'è politica, quella vera, quella seria, senza un riferimento morale, e allora la politica diventa analisi teoricamente e moralmente motivata (e non per questo meno vissuta), non. azione diretta dentro il sistema politico. Diventa azione, invece, contro le degenerazioni del sistema politico, quando appunto lo richiede una motivazione morale, come nel caso della resistenza al fascismo. Oggi, negli anni Ottanta, l'analisi del sistema politico induce a un lucido e motivato pessimismo. Anche sul terreno delle forme, delle regole del gioco del sistema politico, nell'analisi de Il futuro della democrazia (Einaudi, Torino 1984), Bobbio non può fare a meno di ribadire il "dovere di essere pessimisti". Molti, nell'area comunista, ritengono proprio questo terreno della riflessione politica di Bobbio sulla democrazia come regole del gioco e procedure per la sua attuazione quello più debole e pericolosamente astratto, per il suo rischio di neutralismo e in definitiva di indifferenza rispetto ai contenuti sociali e politici. Personalmente, da marxista non completamente pentito, ho imparato proprio da questa riflessione di Bobbio di più sui limiti e le insufficienze del marxismo che non da tutta la vasta letteratura sulla "crisi del marxismo". La ripresa del dibattito sul marxismo teorico passa a mio avviso, oltre che sulla riproposizione di tutta la tematica della soggettività, anche.attraverso il riconoscimento dell'autonomia del problema delle forme e delle procedure della democrazia. Piuttosto, dalla mia prospettiva, ravviso altrove un "nocciolo duro" e perfino una contraddizione nel pensiero di Bobbio. E nel fatto che al pessimismo che si accompagna allo spirito critico nella analisi del sistema politico, si affianca un pessimismo più radicale, quasi antropologico, un'antropologia negativa di sapere hobbesiano. Lo riscontro nell'accettazione esplicita da parte di Bobbio · delle tesi dell'élitismo democratico di Mosca e Pareto: la storia la fanno le élites non le DISCUSSIONE/DIMI masse, chi decide e chi continuerà a decidere, anche attraverso la rappresentanza democratica, sono sempre gruppi e persone espressione di questi gruppi; non si tratta solo della constatazione di un fatto storico, ma anche dell'affermazione di una necessità, di una legge ferrea. Ma c'è anche una contraddizione, che ritengo produttiva. Una contraddizione che emerge soprattutto nel confronto con Capitini. Capitini ha infatti una visione opposta, ma non riducibile né a una pura e semplice riformulazione della democrazia diretta né a organicismo religioso e mistico. Ebbene, Bobbio coglie molto bene questa diversità di Capitini, quando afferma che "il fine della nonviolenza non è la pace, sia pure la pace universale, che è fine puramente negativo, ma la 'liberazione'!' (Maestri e compagni, pag. 291). E la registra, in un confronto quasi accorato e per1niente intellettualizzato, alla fine del saggio (pag. 294): "la differenza tra lui e me stavaìlell'essere lui un persuaso (con questo termine, esplicitamente ripreso da Michelstaedter, Capitini traduceva il credente, nel senso di 'autopersuaso', quasi di 'pervaso'), io un perplesso. I perplessi restano perplessi. Ma è pur vero che la storia di orrori e di follie continua a svolgersi sotto i loro occhi di spettatori impotenti". È possibile sperare e lottare per la liberazione, pur essendo e rimanendo rigorosamente critici, perplessi? NEI PROSSIMI NUMERI: Storiedi Joao Guimaraes Rosa, Nathalie Sarraute,Mario Schifano,Peter Handke, Grace Pa/ey,John Berger,Henry Roth, De/moreSchwartz,Sam Shepard,Arnold Barkus,Ling Shuhua,Clarice Lispector, FabriziaRamondino,Antonio Tabucchi. Inchiestesui giovani teatranti, cineasti e autori di fumetto italiani. Discussionidi Aldo Capitini, don LorenzoMi/ani, Raniero Panzieri,Vieto, - Serge, GershonShaked, Stanley Kubrick,TadeuszKantor,Otar lose/iani, GiovanniJervis, Paola Splendore,Mario Matti, BonnieMarranca. 13

--. ' Pasolini bambino (dal volume "A vec !es armes de la poésie... ", La Maison des Cultures du Monde, Parigi, e Garzanti, Milano, 1984). LETTERAESILVANA Pier Paolo Pasolini (Casarsa, 1948) Carissima Silvana, tu hai detto a Lerici che ormai noi due abbiamo meno bisogno di parlare. Sì, indubbiamente hai ragione, ma perché ammetterlo? Ho provato molto spesso che quando non ho più un sentimento o un bisogno, posso fingerlo: e non è ipocrisia, ma abilità. Si tratta di una specie di interregno in cui io, come reggente, prendo il potere; poi, quel sentimento o quel bisogno ridiviene adulto e allora ricomincia a regnare lui. S'intende che abilità simili non si applicano se non ne vale la pena; e credi che la nostra amicizia non ne valga la pena? Io credo di sì; per quel che riguarda il passato tu rappresenti per me alcune delle ore più limpide della mia vita, e, soprattutto, la mia unica confidenza; per quel che riguarda il futuro ... Non facciamo delle previsioni e non sfruttiamo la nostra "esperienza", è sempre possibile che un po' di pazzia ci sia restata. Quando ci siamo incontrati, abbiamo parlato poco, con tutto quel Lerici intorno; del resto non potevamo pretendere di costituire artificialmente il calore necessario, e siamo vissuti di rendita. Però che cosa stupenda quel mare e quegli odiosi narcisi! Sono quasi due mesi dacché ci siamo visti, ma ti assicuro che mi sembra un'eternità. Forse per quel leggero cambiamento che ho visto in te o nella vita della tua famiglia (il figlio di Ornella, Luciano divenuto "grande" e deluso). Qual è il tuo cambiamento? Forse assomiglia al mio; sai, quell'esperienza di cui parlavamo, ma non ne sono molto sicuro, perché malgrado tutto noi due siamo molto diversi. La mia malattia consiste nel non mutare, mi capisci, vero? E allora se c'è in me qualche cambiamento è puramente superficiale, e si tratta di uno scadimento morale (ma allora dovremmo fare un altro discorso) ... ma no, neanche in tal caso potrei giurare su una essenziale importanza di tale scadimento. Ho perso molti scrupoli e molte timidezze; ho imparato per esempio a fare l'amore senza amore e senza rimorsi. (Ecco, infine confessato, il mio cambiamento). "Divenire felici è un dovere" (Gide), questo è stato l'unico dovere della mia vita, e l'ho compiuto con accanimento, lo strazio e la malavoglia che "il dovere" comporta. Che miserabile questo tuo amico, eh Silvana? Tu invece sei effettivamente un poco mutata, e sapessi come ti invidio! È ormai quasi un decennio che tu rappresenti per me una specie di Modello di purezza tanto più autentica quanto più abitudinaria e congenita. Ora ti vedo allontanarti per una strada pervasa da una specie di luminosità accorata, dove io mi perderei, timido e sacrilego. No, non c'entra più il complesso d'inferiorità o il mio eros maniaco, sono cose scontate e divenute humus, sottobosco, dati senza più valore diretto; è l'individuo che io ci ho costruito sopra, e che in fondo avrebbe anche potuto essere un capolavoro, che non mi accontenta. Possibile che il trovarsi fuori dalla pura funzionalità della natura non provochi, alla fine dei conti, che una nostalgia per la natura? Bah, non parliamo di ciò, ti annoi. Tornato a Casarsa la mia vita solita mi ha ingoiato. Come un sasso caduto nell'acqua ho schivato qualche onda concentrica, poi la superfice _siè completamente distesa. Sotto l'acqua vivo di deliziosi sotterfugi, perfetèamente felice di essere nascosto. Faccio scuofa, ho grandi programmi (un teatro e un'infinità di faccende parascolastiche: il Provveditore ha deciso di fare della scuola di Valvasone una specie di scuola sperimentale). Lavoro molto anche in campo politico; come sai sono segretario della Sez. di San Giovanni, e ciò mi impegna molto, con conferenze, riunioni, giornali murali, congressi e polemiche coi preti della zona che mi calunqiano dagli altari. Per me il credere nel comunismo è una gran éosa. · Quanto alla mia vocazione letteraria, la mia vena è fin troppo abbondante, i soliti versi in friulano e in italiano, un po' di critica e il romanzo che continua a tenermi occupato non so dirti con che batticuori e che altissime ore di impegno. La domenica mi diverto; ora il tempo è bello, tutta una piaga azzurra. Domenica tornerò a Malafiesta. Trepidazione e ghigni. · Ora, cara Silvana, attendo una tua lettera. Bada, mi bastano anche due righe: cosa fai tu, che ne è di Fabio, come stanno i tuoi. Con tutto il male che ti ho detto di

Pasolini e la madre (dal volume "Avec !es armes de la poésie... ", cit.). me, puoi accettare ora questo piccolo elogio: io, l'incostante, il politeista, il nomade, il libertino, sono molto fedele ai miei affetti. (Un elogio?, a parte il tono ridicolo con cui me lo sono fatto - "Io non sono mai stato fascista, signore" -, mi accorgo che non è altro che un dato della mia malattia). Comunque rispondi anche solo con due righe all'affetto paleozoico del tuo aff.mo Pier Paolo Cara Silvana, (Casarsa, 1948) scusami se torno a scriverti, ma la mia ultima lettera era per me troppo importante. Era l'ultimo filo di speranza: assurdo, è vero? Intanto le mie condizioni sono tremendamente peggiorate, per quanto un peggioramento non fosse nemmeno immaginabile. Mio padre, preso da una delle sue solite crisi, di malvagità o di pazzia, ormai non lo so, ci ha per l'ennesima volta minacciati di lasciarci e ha preso accordi per vendere tutti i mobili. Tu non sai a cosa si è ridotta mia madre. Io non posso più sopportare di vederla soffrire in questo modo disumano e indicibile. Ho deciso di portarla domani stesso a Roma, all'insaputa di mio padre, per affidarla a mio zio; io non potrò stare a Roma, perché mio zio mi ha fatto capire che non può tenermici, ma spero che per mia madre la cosa sia diversa. Da Roma non so dove andrò, forse a Firenze; come vedi sono in ben tristi frangenti (tieni conto del processo e delle condizioni di mio padre quando si troverà solo), e una voce amica può essere il filo che mi lega a qualche ragione di vivere. Perché non mi rispondi? Posso avere agito male - lo dico perché non riesco a pensare a qualche altra causa plausibile del tuo silenzio -, e in tal caso perdonami; è molto difficile comportarsi bene, essere ragionevoli, quando ci si trova nelle mie condizioni. Se dunque vorrai scrivermi qualcosa, il mio indirizzo, per qualche giorno almeno, sarà: presso Gino Colussi, via Porta Pinciana 34 Roma. Poi non so dove andrò e cosa farò; la mia vita è a una svolta più che decisiva. Spero che in qualche parte del mondo ci sarà un po' di lavoro, anche il più umile, per me; dicono che non si muore di fame. Così alla vigilia della mia avventura, ti mando i-miei saluti più affettuosi, anche per la tua famiglia. P'ier Paolo Carissima Silvana, ~ Roma IO febbraio 1950 avevo deciso di riscriverti questa mattina, perché mi ero pentito della mia ultima lettera, un po' troppo piena di disperazione; spero che tu me l'abbia perdonata. Oggi; senza una ragione, ero meno oppresso, avevo qualche linea di meno di sconforto. Adesso è già sera, e sono qui con la tua lettera davanti agli occhi. Sai, abito vicino al ghetto a due passi dalla chiesa di Cola di Rienzo: ti ricordi? Ho rifatto ormai due o tre volte quel nostro giro del '47, e anche se non ho più ritrovato quel cielo e quell'aria - dal tremendo grigio del ghetto al bianco di San Pietro in Montorio; l'ebrea seduta vicino a una catena contro la porta scura; il temporale con l'odore di resina, e poi Via Giulia e palazzo Farnese, quel palazzo Farnese che non si ripeterà più, come se la luce dopo il temporale lo avesse scolpito in un velo - mi sono stordito e consolato. Anche adesso ho la testa ronzante dei gridi di Campo dei Fiori, mentre spioveva. Ma questo calore che mi invade come un riposo, lo devo alla tua lettera: è qui sporca di rossetto e di crema, del carnevale di Versuta e dei fiori di Piazza di Spagna. A quei tempi, nel '47 è cominciata la mia discesa, che è divenuta precipizio dopo Lerici: giudicarmi ancora non mi riesce, neanche, come sarebbe facile, giudicarmi male, - ma penso che fosse inevitabile. Mi chiedi di parlarti con verità e con pudore: lo farò, Silvana, ma a voce, se è possibile parlare con pudore di un caso come il mio: forse l'ho fatto in parte nelle mie poesie. Ora da quando sono a Roma, basta che mi metta alla macchina da scrivere perché tremi e non sappia più nemmeno pensare: le parole hanno come perso il loro senso. Posso solo dirti che la vita ambigua - come tu dici bene - che io conducevo a Casarsa, continuerò a condurla qui a Roma. E se pensi all'etimologia di ambiguo vedrai che non può essere che ambiguo uno che viva una doppia esistenza. Per questo io qualche volta - e in questi ultimi tempi spesso - sono gelido, "cattivo", le mie parole "fanno male". Non è un atteggiamento "maudit", ma l'ossessionante bisogno di non ingannare gli altri, di sputar fuori ciò che anche sono. Non ho avuto un'educazione o un passato religioso e moralistico, in apparenza: ma per lunghi anni io sono stato quello che si dice la consolazione dei genitori, un figlio modello, uno scolaro ideale... Questa mia tradizione di onestà e di rettezza - che non aveva un nome o una fede, ma che era radicata in me con la profondità anonima di una cosa naturale - mi ha impedito di accettare per molto tempo il verdetto. Devi immaginare il mio caso un po' come quello di Fabio, senza psichiatri, sacerdoti, cure e sintomi e crisi, ma che, com'è di Fabio, mi ha allontanato, assentato. Non so se esistano più misure comuni per giudicarmi, o se non si deve piuttosto ricorrere a quelle ecce15

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