Linea d'ombra - anno II - n. 7 - dicembre 1984

94 INCHIESTA/TABUCCHI, DELGIUDICE noioso del mondo. Ho cercato nel mio viaggio di smentire a me stessa alcuni luoghi comuni connessi al viaggio: la strenua ricerca dell'identità (è più difficile perderla che trovarla), l'illusoria ingordigia con cui si crede di ingoiare in un solo boccone una cultura diversa, l'istintivo e facile "affratellamento"con il Terzo Mondo, per esempio. 4) Leggo molto poco e ho interi secoli arretrati. Quindi leggono poco anche gli autori contemporanei. Come sempre accade si perde tempo quando si ha più paura di perderlo. Questo per dire che non saprei dare µn giudizio intero e circostanziato sulla letteratura di oggi. Certamente gli audiovisivi influiscono sulla scrittura, anche il telefono ha prodotto effetti. Nel campo degli audiovisivi ci sono i grandi film, la pubblicità, i telegiornali, i videoclips, hanno in comune forse soltanto un ritmo di cui anche la scrittura deve tener conto. Mi sembra che fin adesso lo scambio quando c'è sia a senso unico, il cinema e la televisionenon sono ancora riusciti a utilizzare la letteratura. 5) Non so cosa sia di preciso un mondo di sentimenti, sono fuorviata dalla frase idiomatica "buoni sentimenti". Esiste il mondo ed esistono gli innumerevoli sentimenti che se ne hanno. E questi ci saranno sempre. I sentimenti stessi poi possono essere freddi o caldi ma non è detto che quelli freddi siano meno caldi dei caldi. Anche qui credo che queste categorie di caldo e di freddo siano applicabili forse allo stile, ma è un po' come parlare di "scrittura al maschile" e "scrittura al femminile". ANTONIOlABUCCHI 1) Perché mi piace è la risposta più immediata, e probabilmente banale. Credo che il piacere sia inerente, in primo luogo, a qualsiasi espressione .artistica. Stabilire poi che cosa sia esattamente questo piacere e il confine esatto in cui esso lascia spazio a una partecipazione anche sofferta, questo è un discorso molto più difficile da fare, varia con i singoli individui, con le circostanze della scrittura e con il carattere del testo. È evidente tuttavia che il piacere non esaurisce la motivazione della scrittura, almeno nel mio caso. Scrivere rappresenta un punto di vista dislocato dal quale guardare il reale. Sottolineo la parola dislocato perché la forma narrativa, cioè la creazione di personaggi, significa (spesso, ma non sempre, e non in tutti i miei libri) l'evasione da un punto di vista univoco e costrittivo che si chiama Antonio Tabucchi e l'immersione nel punto di vista di un personaggio che non sono questo io che parla, ma un io inventato (ma non per questo meno vero) attraverso il cui sguardo mi sforzo di guardare il reale. Se poi tale personaggio mantiene alcune strutture mentali di Antonio Tabucchi anche questo è un discorso difficile da fare. Del resto un attore non cessa di essere se stesso mentre interpreta il ruolo di un personaggio: è però innegabile che in quel preciso momento, mentre sta vivendo la vita del suo personaggio, egli è quel personaggio, opera un curioso ed equivoco connubio: continua a essere se stesso essendo un altro. 2) Il mio piacere di scrivere consiste in buona parte in questo: sentire me stesso che vive in un altro e che guarda il reale, nelle sue molteplici possibilità di essere interpretato, da un punto di vista che non è necessariamente il suo. Credo che il romanzo, o la narrativa di finzione che prevede personaggi, sia sostanzialmente questo: un osservatorio di punti di vista. 3) Quale è, ora, il ruolo dell'esperienza personale nella costruzione della finzione così come io la intendo? È evidente che l'esperienza, qualsiasi esperienza, non conta tanto in sé, ma in rapporto a chi la vive. Una piccola, magari insignificante esperienza, può assumere per chi scrive un'importanza enorme, una portata inimmaginabile, provocando risonanze e onde di suggestione, in termini letterari, che non sono direttamente proporzionali all'importanza fattuale dell'esperienza stessa. Per quanto mi concerne, per esempio, posso affermare di avere vissuto esperienze interessanti e intense in termini umani ed esistenzialiche mi hanno suggerito ben poco in termini letterari. Al contrario, a volte, un incontro inatteso, una storia altrui, una scena, il brandello di una conversazione ascoltata per caso hanno funzionato letterariamente con un enorme potere suggestivo. In termini di resa creativa la vita e l'esperienza sono delle incognite. Vivere pensando alla letteratura è un peccato contro la vita, e spesso anche contro la letteratura. Credo che l'importante sia vivere senza chiedere che la vita ci fornisca, obbligatoriamente, letteratura. Se poi essa arriva, tanto meglio: sarà una sorpresa. 5) Saltando all'ultima domanda,- credo che la letteratura sia anche l'espressione di un mondo di sentimenti, almeno nel mio caso. Anche la sempliceosservazione può esserè una forma di sentimento: denota se non altro curiosità. Non posso dire con sicurezza, naturalmente, se la curiosità sia un fatto sentimentale o una pura attività della ragione. Per quanto mi concerne, tuttavia, la letteratura (e anche le altre espressioni artistiche: cinema, teatro, ecc:,)mi coinvolge emotivamente. Ho pianto tante lacrime sulla finzione, diceva Puskin. Mi pare una naturale forma di partecipazione per l'espressione letteraria, che, anche se finzione,. rappresenta simbolicamente la vita. 4) Per quanto riguarda una domanda alla quale non avevo finora risposto, vorrei concludere dicendo che non credo a una "giovane" o ad una "vecchia" narrativa. La diacronia e le generazioni, da un punto di vista letterario, servono principalmente ai manuali scolastici. Naturalmente ci sono temi, situazioni e problematiche, specialmente a livello sociale e di costume, che sono propri di una generazione, più che di altre, costituiscono il carattere di tale generazione, il suo aspetto e la sua fisionomia - e la generazione alla quale appartengo possiede indubbiamente il suo carattere. Ma tali temi e tali problematiche non esauriscono il senso della letteratura. DANIELE DELGIUDICE 1) Francamente non ho molta curiosità del perché. Mi interessa invece, quando ho finito un libro, quello che scriverò dopo, dato che il perché o il significato dello scrivere sono questioni implicite e trovano una loro risposta scrivendo. Bisognerebbe inventare una psicanalisi di quello che si farà, non di quello che si è già fatto: "mi parli della sua vecchiaia''. Penso che a un certo punto della mia vita lo scrivere e il raccontare storie avranno una loro trasparenza anche per me. A quel punto immagino che avrò finito, e magari capirò anche perché l'ho fatto. 2) L'unica esperienza che c'è nei libri è quella di una persona di fronte alla forma. Quando una storia o un comportamento arrivano sulla pagina hanno già perso il carattere di esperienza, sono entrati nell'ambito dell'invenzione, dove nulla può più essere reso in forma testimoniale. A questo punto la domanda non può che essere sulla finzione, sull'esattezza della descrizione, sul punto di vista (proprio nel senso ottico), cioè su come la specificità di questo mestiere, la sua diversità e la sua tecnica trasformano ogni cosa in un'altra, producendo forse esperienza, per chi scrive e per chi legge, ma non presupponendola. 3) Di questi argomenti si occupa di solito la sociologia, e potrebbe continuare a farlo. In generale mi pare che il problema non sia lo spazio, che c'è per tutti. Oggi i romanzi parlano di cinema, i film vengono tratti dai romanzi, la televisione si occupa di letteratura, nei romanzi si denigra la televisione, i telefilm raccontano storie di giornalisti, i gior-

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