UNANNODICINEMA Gianni Volpi Che cosa chiedere oggi al cinema, un medium cosi intaccato nei suoi caratteri storici dalle trasformazioni del sistema delle comunicazioni? Direi, da un lato una volontà autentica di ricerca, sia essa piu spostata verso la vitalità espressiva oppure verso l'intelligenza del reale, dall'altro il gusto delle pratiche basse, del film di "serie B", terreno di caccia di troppi cinéphiles "rétro" anche nel rapporto con i nuovi film. Cioè, in opposizione all"'autoritarismo" dell'opera alta, il gusto della variante dentro la ripetizione, del calco che riscopre l'essenza di una tradizione, le radici di un "genere", in nome del fatto che al cinema lo spettatore ama piu riconoscere che conoscere. Però, è proprio quest'ultimo caso a essere il piu raro, se non nel modo di produzione e consumo asiatico e terzomondista, perché non c'è piu l'humus necessario, la serie in grado di creare un universo mitico e una retorica, cui un film possa rapportarsi; costretto invece a esserequalcosa di "unico", prodotto di prestigio e infine d'Autore - e tali sono Hammett e Una poltrona per due, All'ultimo respiro e Scarface. In questa chiave, l'ultima stagione dà senza bisogno di mediazioni il senso della schizofrenia attuale: una certa ricchezza di opere notevoli o comunque interessanti, sorte dal deserto, da una crisi strutturale per cui il cinema è uscito definitivamente dalle "abitudini" e il pubblico ha toccato il minimo storico (150 milioni di presenze circa, da noi). Sia chiaro: opere non italiane, non prodotte da un cinema in cui sembra morta ogni imprenditorialità, cioè il coraggio di osare, a favore di un clientelare assistenzialismo di Stato e di un intermittente intervento RAI. Non vi si trova che la "normalità", di pieno decoro, dei Rosi, Scola, Nanni Loy, e le gravi involuzioni dei Ferreri e Bellocchio, vittima il primo degli equivoci del suo statuto di autore internazionale e popolare e il secondo di una difficoltà a uscire dai confini delle proprie radici esistenzialie culturali. Lo spirito di aggressione e negazione è malamente surrogato da confuse e isteriche ideologie pseudo-femministe o da volontarismi soggettivistici. Piu che "idee-forza", appaiono qualcosa cui abbarbicarsi nella fine di una fase storica, dentro e fuori il cinema. Tra proposte totalizzanti e "minima immoralia" di un privato meschino, il cinema italiano sembra incapace di uno sguardo diverso,_e.osi,come di lavorare, a esempio, su comportamenti e "immaginario" delle giovani generazioni. Forse esistono due piccole, diverse eccezioni. L'una, piaccia o meno a molti di noi, è Bianca con cui Nanni Moretti dà al suo stile (o non-stile) orizzontale, a striscie di realtà, un di piu di "senso", detector narcisistico ma doloroso di "valori" stravolti quanto in atto. L'altra è Summertime di Massimo Mazzucco, decontratto racconto di un milanese a New York e di un rapporto né mitico né moralistico con l'America. Tra l'altro è il segno di ciò che si muove, in mezzo a tanta sottocultura, in tutta un'area marginale, decentrata, di "produttori di se stessi". Se restano "aperture" (per ora, almeno) prive del necessario respiro, assai meno c'è da aspettarsi dai "grandi" visto che il meglio dei festival è Kaos dei fratelli Taviani, che non uscirà nelle sale. In ogni caso, è un film di sintesi, di "divulgazione" del proprio mondo piu che non di ricerca, con improvvise accensioni di crudeltà e dolore contadino e, in fine, "favola" di memoria e realtà degna di La notte di San Lorenw. È nella forma soprattutto che i due cineasti sembrano trovare un principio/inizio di ordine nel caos, un ordine appunto tutto formale. Nei fratelli Taviani trova un qualche fondamento il mito della Grande Cultura caratteristico dei nostri Autori. È invece il pragmatismo a informare il cinema americano, tutto, il solo a attuare una riuscita conversione in sintonia con le nuove realtà del mercato dei "media". Un'efficace "fantasy" con i serial stellari e "zen" di Lucas e le de/ricostruzioni dei sogni e dei miti di massa di Spielberg, flash e breakdance, horror ~ degrado metropolitano tremendi e vitali. E una cruda realpolitik che costringe al silenzio un Penn e a piccoli film teatrali un Altman (Jimmy Dean, Streamers). E appunto i "media" - il messaggio selvaggio, il villaggioglobale - sembrano essere l'ossessione dei cineasti americani piu coscienti. Nessuna infatuazione per la loro "forma discontinua" né ottimismo tecnologico, ma i "media" scarnificati sino al loro senso etimologico di "mediazione", di struttura portante di un sistema, perciò elemento chiave per una riflessione sull'America e le sue "immagini" e su se stessi, sul proprio ruolo in quell'ordine. Woody Allen già in Io e Annie chiamava in scena McLuhan. Con Zelig "intrattiene" sui luoghi comuni come essenza di uno stile di vita che trova il suo eroe in un ipercamaleonte che non ha piu un'identità neppure fisica. Cioè, tante diverse per ciascun ambiente; -eJerry Lewis, ebreo meno egotista, di una nevrosi piu "sociale", nel Re per una notte è ormai !"'incarnazione di un'apparenza", riDISCUSSIONE/VOLPI flesso vuoto e da incubo del proprio pubblico. Tramite il rituale idolatrico e reversibile -di un divo/fan con la sua "nuova" violenza, Scorsese sviscera con acre e cattolica moralità la fine di una mutazione antropologica in cui si è condensato il carattere maligno del sistema. Ecco, insomma, la TV (già Hollywood) - America. Non resta a Allen che la "nostalgia" di Broadway Danny Rose, lo sfigato agente teatrale cui ancora è data una "terribile" possibilità di morte e amore, e a Lewis, tra le acute ma non allegre gag del suo Qua la mano picchiatello, il senso di una radicale impossibilità a "adattarsi". Due "perdenti" senza scampo in una società di Zelig e Re dello Show, che però è capace in ogni senso di "produrre" (o almeno tollerare) i suoi anticorpi. Da virtuoso è il mimetismo sul piano delle immagini e dei comportamenti di Zelig ("basta investire due anni di lavoro e 10milioni di dollari", dice Allen ad americanamente sottolineare la base economica e artigianale del suo cinema d'autore) e, senza averne l'aria, fa un discorso teorico sullafalsità come essenza del cinema, anche quando sembra documentario. Un mimetismo che 79
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