ALTELEFONO Grazia Cherchi r., ggi lavoro in casa: devo leggere un dattiloscritto e dar- ~ ne un giudizio con urgenza. Speriamo che non si tratti di cose autobiografiche - una purulenta costante dell'Italia che scrive - e che il telefono non disturbi troppo. Non sopporto il telefono. Anche perché, a causa sua, non si scrivono più lettere. È tale ormai la disabitudine che se mi capita di scriverne una, il destinatario trasecola e generalmente non capisce. E risponde con una telefonata. "Ho ricevuto la tua lettera ... Scusa, ma non ho ben capito. Non avevamo già chiarito tutto l'altro giorno al telefono?" È questo il punto di riferimento imprescindibile. Esularne è sintomo di stravaganza, se non di salute mentale precaria. Mi accingo alla lettura. Il protagonista narrante inizia descrivendo minuziosamente il morbillo che si è beccato in tenera età. Sento che nulla mi sarà risparmiato. Squilla il telefono. "Siete voi che allevate cincillà?" Già, c'è anche chi sbaglia numero. Superato il trauma della malattia, il nostro eroe sta adocchiando una coetanea di sei anni... Il telefono. "Cara, oggi non riesco a combinare niente per la pioggia di telefonate ... ". Ah, le sigarette, ho dimenticato le sigarette di là. Ce la farò ad andare e tornare senza che se ne accorga? Come nel bellissimo Cameraman di Keaton ce la faccio. L'amica adora il telefono, lo chiama "croce e delizia", ma ne è soprattutto deliziata. Così, se non ricevo telefonate, posso sempre contare sul racconto circostanziato delle non poche che riceve lei. Faccio infine ritorno al dattiloscritto. Ma è un ritorno del tutto effimero. "Disturbo?" Questo è di gran lunga l'esordio più irritante. "Sarò rapidissima perché sono in piena lite coniugale". Non fa notizia. È da dieci anni che stanno per lasciarsi. "Poi ti dirò che cosa mi ha detto lo psicanalista". Lo immagino benissimo, potrei dirglielo io gratis. "Ma il problema principale adesso è un altro: ho bisogno per domani mattina di centomila lire". Qui il suo guru è fuorigioco. "Non è un gran bel momento ... ", dico titubante. Ma so benissimo che gliele darò: 'ognuno riconosce i suoi' e io le cicale come me. E se le cicale non si aiutano tra di loro, chi le aiuta? " ... comunque te le presto volentieri". Non è detto giusto, soprattutto riguardo al verbo, del tutto improprio. Il mio autore bambino è bistrattato dai compagni di scuola un po' maneschi: non lo capiscono, è troppo sensibile per loro. Ci risiamo. "Ciao". "Ah, Guido, che voce triste! Di chi è la colpa?" "Mia. Mi vado sempre a cacciare in situazioni perdute in partenza''. È uno degli amici cui tengo, quindi ho tutto il tempo che vuole. "È vero, hai un'antica predilezione al riguardo". "Senti l'ultima, è di un'ora fa. Mi telefona Irene e mi annuncia che sta per partire per Madrid, destinazione Prado". "Ma non dovevate andarci insieme?" "Pareva anche a me. Avevamo anche fatto un programma dettagliato. 'Ci vediamo quando torno', mi ha detto salutandomi. 'Come no!' ho risposto riagganciando". "C'è una bella poesia di Fitzgerald", dico, "in cui la sua amica Helena gli racconta nel dormiveglia di un posto in cui vorrebbe andare con lui. Glielo descrive in modo tale da accendergli le più incantevoli fantasie. E la poesia termina così: 'Helena se ne andò / E sposò un altro / Non conservo rammarico alcuno, / Ma mi piacerebbe sapere / Se lo abbia condotto I Dove aveva promesso che saremmo andati'". "Ecco", dice Guido, "io almeno non ho questa curiosità da soddisfare. Forse è una questione di età", continua rinfrancato "ma per fortuna non riesco più a prendere molto sul serio le mie disavventure sentimentali". "Tanto meglio!" dico. "Anche le sofferenze che ci infliggiamo sono ormai di formato ridotto, quasi sopportabili". "Nella prossima incarnazione sento che andremo a cercar sfortuna insieme", dice dolcemente. "Puoi contarci". Il mio ragazzino incompreso è nel momento in cui ci si rifugia nella lettura. Il guaio è che prima o poi passerà alla scrittura. Il telefono. "Ciao, sono io". Altro inizio irritantissimo. "Sono io" non lo sopporto neanche dall'amante più amato, figuriamoci da altri. "Io chi?" chiedo sgarbatamente. E sul tono sgarbato al telefono la so lunga. "Scusa, sono Umberto, ho bisogno di un grosso favore ... " "Sii breve, non ho tempo. Devo finire una lettura e sono in alto mare. Il telefono poi non mi dà pace". "Staccalo". "Già, così almeno non mi avresti beccato. Il fatto è che aspetto, invano, un'interurbana". "Il favore riguarda il mio cardiologo. Ha scritto un romanzo". "Anche lui! Nessuno legge più e si mettono a scrivere anche i cardiologi. Bisognerebbe razionare la carta: a ciascuno secondo le capacità! E tot carta deve bastare tutta la vita!" "Scusa se interrompo il tuo sacrosanto sfogo, ma lo sai che mi è indispensabile tenermi buono il cardiologo ... " Fa una pausa: lo immagino benissimo mentre si tasta il polso e controlla le pulsazioni. "Lo leggerei io, ma mi hai detto tante volte che non capisco niente di narrativa". "Mi stai prendendo in giro? Per leggere il testo del tuo medico basti e avanzi". "Ti dirò la verità: gli ho promesso una risposta per lunedì dimenticando che devo andare a un convegno a Ravenna ... " "Ben pagato, immagino, mentre io al massimo posso aspirare a un elettrocardiogramma gratis! Telegrafa a Ravenna che non vai, tanto, relatore più relatore meno ... " "Ma questa volta non sono tra i relatori, devo fare il pezzo per il giornale".
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