Roland Barthes (foto Carla Cerati, Agenzia Grazia Neri). ALSEMINARIO Roland Barthes Si tratta di un luogo reale o fittizio? Né.l'uno né l'altro. Una istituzione va trattata secondo una modalità utopica: delimito uno spazio e lo chiamo: seminario. È vero che l'assemblea di cui parlo si riunisce ogni settimana a Parigi, cioè: qui e ora; ma questi avverbi sono anche quelli del fantasma. Nessuna cauzione della realtà, quindi, e nessuna gratuità di aneddoto. Si potrebbero dire le cose diversamente: che il seminario (reale) è per me l'oggetto di un (leggero) delirio e che io sono letteralmente innamorato di quell'oggetto. I tre spazi La nostra assemblea è piccola non per una sollecitudine di intimità, ma per una cura della complessità: è necessario che alla geometria grossolana dei grandi corsi pubblici si accompagni una topologia sottile dei rapporti corporei, di cui il sapere sarebbe il pre-testo. Tre spazi sono presenti, dunque, nel nostro seminario. Il primo è istituzionale. L'istituzione fissa una frequenza, un orario, un luogo, a volte un cursus. Esige che si riconoscano dei livelli, una gerarchia? Assolutamente no, almeno qui; altrove la conoscenza è accumulativa: si conosce piu o meno l'ittita, si conoscono piu o meno le scienze demografiche. Ma il Testo? Si possiede forse piu o meno bene la lingua del Testo? Il seminario - questo seminario - non è fondato su di una scienza comune, ma piuttosto su di una complicità di linguaggio, cioè di desiderio. Si tratta di desiderare il Testo, di mettere in circolazione un desiderio di Testo (accettiamo uno slittamento del significante: Sade parlava di un desiderio di testa). Il secondo è uno spazio di transfert (questa parola è presa senza nessun rigore psicanalitico). Dov'è la relazione di transfert? Classicamente, si instaura tra il direttore (del seminario) e l'uditore. Ma anche in questo senso, una tale relazione non è sicura: io non dico quel che so, io espongo quel che faccio; non sono avvolto nel discorso interminabile del sapere assoluto; non sono acquattato nel silenzio terrificante dell'Esaminatore (ogni professore - ed è questo il vizio del sistema - è virtualmente un esaminatore); non sono né un soggetto sacro (consacrato), né un compagno, ma solo un moderatore, un operatore di seduta, un regolatore: colui che dà delle regole, dei protocolli, e non delle leggi. Il mio ruolo (se ne ho uno) è di liberare la scena dove si produrranno dei transfert orizzontali: quel che conta in un tale seminario (il luogo del suo successo) non è il rapporto degli uditori col direttore, ma il rapporto degli uditori tra loro. Ecco quel che bisogna dire (e che io ho capito a forza di ascoltare il disagio delle assemblee troppo numerose in cui ciascuno si lamenta di non conoscere nessuno): la famosa relazione di insegnamento non è quella tra l'insegnante e l' "insegnato", ma è quella degli "insegnati" tra loro. Lo spazio del seminario non è edipico, è quello del falansterio, cioè, in un certo senso quello romanzesco (il romanzesco è diverso dal romanzo, ne è l'esplosione: nell'opera di Fourier, il discorso d'Armonia finisce in frammenti di romanzo: è il Nuovo Mondo Amorosq); il romanzesco non è né il falso né il sentimentale; è solo lo spazio in cui circolano desideri sottili, desideri mobili; è, nell'artificio di una socialità la cui compattezza si è miracolosamente assottigliata, l'intreccio dei rapporti amorosi. Il terzo spazio è quello testuale: sia che il seminario si propònga di produrre un testo, di scrivere un libro (con un montaggio di scritture); sia che consideri la propria pratica - non funzionale - già un testo: il testo piu raro, quello che non passa per lo scritto. Un certo modo di stare insieme può accogliere l'iscrizione significante: ci sono scrittori senza libro (ne conosco), ci sono testi che non sono prodotti ma pratiche, e si può anche dire che un giorno il testo glorioso sarà una pratica purissima. Nessuno di questi tre spazi è valutato (svilito o lodato), nessuno prevale sugli altri. Ogni spazio è, volta a volta, il supplemento, la sorpresa degli altri due, tutto è indiretto (Orfeo non si volge indietro verso il suo godimento e quando si volta lo perde; se noi ci volgiamo verso il sapere, o il metodo, o l'amicizia, o il teatro stesso della nostra comunità, tutto questo plurale scompare: non resta altro che l'istituzione, o il
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==