Linea d'ombra - anno II - n. 7 - dicembre 1984

stro paese è stato quasi sempre vanificato dalle più potenti e interessate interpretazioni politiche non meno che dall'amplificazione goduta dalle tesi di opinion-makers o di professori trasformatisi in pacchiani profeti del nostro tempo. I ragazziitaliani In questo quadro, dunque, s'inserisce l'indagine IARD sui ragazzi italiani d'oggi contribuendo a riportare la discussione sulla terra più salda dei dati oggettivi. È un merito, questo, che si coglie subito, fin dai preliminari della ricerca. Presentando il campione dei 4.000 intervistati e correttamente reinserendolo nell'universo di riferimento per i necessari rapporti di scala, vengono forniti alcuni dati già di per sé significativi.Viene rilevato il fatto, per esempio, che quasi due terzi dei giovani italiani vivono in comuni con meno di 50.000 abitanti e poco più di un terzo. in comuni molto piccoli, con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti. Solo una minoranza, cioè, vive la realtà dei grandi agglomerati urbani. Questo primo elemento messo in luce preliminarmente rende più cauti verso talune generalizzazioni estrapolate dall'esperienza giovanile metropolitana. È pur vero che gli echi e i bagliori della metropoli giungono fino alla provincia, e che il mondo tende ad essere ormai "un solo villaggio", ma questo dato strutturale dovrebbe suscitare più meditate letture (una ricerca come Altri codici, per tanti versi stimolante e innovativa, deve venir letta in questa cornice, per non risultare sbilanciata verso un solo aspetto, e minoritario, dell'esperienza giovanile). Un ulteriore dato preliminare e strutturale accertato dalla ricerca riguarda la complessità e l'estrema diversificazione che impediscono di parlare dei "giovani" come di un tutto unico e indifferenziato. Calcolata sulla base di una serie di indici (suddivisione territoriale, status socio-economico, livello culturale famigliare, indice di autonomia) già questa immagine fa giustizia di tanti stereotipi. Il volume, poi, si articola in altri sei capitoli in ognuno dei quali vengono presentati e commentati per argomenti i risultati dell'indagine: la scuola, il lavoro, l'associazionismo e la partecipazione politica, la famiglia e le amicizie, il tempo libero e i consumi, la devianza e la droga. I capitoli sulla scuola (steso da V. Cesareo) e sul lavoro (steso da G. Romagnoli) convergono nell'indicare uno degli atteggiamenti distintivi di questi giovani. Un atteggiamento di estremo disincanto, che non fa discendere giudizi e valutazioni da premesse ideologiche bensì dall'esperienza concreta e da un calcolo di opportunità. Si tratta, in generale, di un procedimento di tipo razionalestrumentale, che pervade gli orientamenti complessivi di questi giovani. Nell'esperienza scolastica accertata, le tensioni brucianti degli anni '60 e '70 sembrano del tutto espunte. Il rapporto con gli insegnanti viene giudicato positivamente, la scuola non viene vista altro che come un luogo di studio e d'incontro tra coetanei, e ciò che le si chiede è di funzionare, di fornire una professionalità da utilizzare nel futuro lavoro, di qualificare. È un po' il medesimo approccio che si riscontra nei confronti del lavoro. Romagnoli polemizza con quelle analisi (di matrice operaista, soprattutto) che vedevano i giovani come protagonisti in massa del "rifiuto del lavoro" e rassicura ironicamente quei moderati e quei reazionari che prendendo sul serio quel preteso "rifiuto" cominciavano a preoccuparsi per le sorti del paese. È vero - nota Romagnoli sulla scorta delle risposte ai questionari, che diminuisce il peso del lavoro nell'economia esistenziale della gente, la quale non trova più in esso il centro della propria esperienza, ma il fenomeno non è tipico dei giovani. Interessa chiunque debba lavorare per vivere (cioè la società nel suo complesso) e indica una speciedi mutazione antropologica in atto. Ma non si tratta di un "rifiuto", bensì di una ridefinizione degli spazi occupati dal lavoro nella vita individuale e sociale. Per il resto, in verità, soprattutto i giovani lavorano assai più di quanto non risulti correntemente. L'indagine infatti conferma diverse analisi di questi anni sulla massiccia presenza giovanile nei settori sommersi dell'economia, settori che sfuggono ai controlli e che occupano manodopera scarsamente retribuita e saltuaria, in una sorta di prolungato apprendistato che reca il suo contributo di fatiche e d'incertezze al "miracolo" dell'economia diffusa. Più che di vera e propria disoccupazione si deve quindi parlare di una condizione di lavoro intermittente, che offre frequenti possibilità di reddito ma che non le garantisce mai a lungo, e che comunque - è un altro dato accertato dall'indagine - le nega più spesso ai giovani di condizione sociale svantaggiata. Riassumendo, il quadro strutturale di sintesi per quanto riguarda la condizione giovanile sul mercato del lavoro viene così tratteggiato: "i dati essenziali sono cinque: a) il tasso di attività registrato è particolarmente, o inaspettatamente elevato; b) esso comprende una quota di occupazione marginale o periferica in senso stretto che DISCUSSIONE/BETTIN riguarda il 220Jo degli occupati (e il 29% circa delle donne nella stessa condizione), ma che può essere estesa a una parte probabilmente non piccola di quel 28% del campione che ha avuto una qualche socializzazioneal lavoro e non risulta attualmente occupata; c) gli inoccupati in cerca di lavoro, in percentuale quasi doppia rispetto alle statistiche ufficiali, sono prevalentemente soggetti in famiglie con un livello di istruzione mediobasso; d) le attività prevalenti di gran lunga sono di tipo manuale (il 67%) e sono effettuate anche da soggetti di famiglie con istruzione medio-alta (quasi il 32% del gruppo); e) tali mansioni sono svolte soprattutto in piccole e piccolissime aziende con remunerazioni presumibilmente inferiori alle tariffe sindacali minime e con orari di lavoro particolarmente lunghi per un quarto dei giovani occupati". È nel vivo di questa esperienza concreta e ripetuta che prende forma l'atteggiamento verso il lavoro. Un atteggiamento, appunto,. disincantato, che calcola razionalmente, nei limiti strutturali consentiti dal mercato, il peso da attribuire al lavoro nella propria vita. Il lavoro è solo una parte della vita, non il cuore dell'esperienza né il luogo delle solidarietà prevalenti o del riscatto politico. Rimane, tuttavia, il luogo che forse co.n più evidenza simbolizza le contraddizioni della transizione in atto nella società e nel mondo giovanile. Le conclusioni sull'associazionismo e la partecipazione politica aggiungono un altro coerente tassello al puzzle raffigurante i ragazzi d'oggi. Una figura, si è visto, meno disponibile a forti coinvolgimenti ideali, diciamo pure un po' fredda - o fredda rispetto a ciò che non la riguarda in prima persona. Luca Ricolfi, autore del capitolo, nota come con questi giovani ci troviamo di fronte alla prima generazione del tutto estranea agli "anni caldi" (tra '68 e '77). Per questo aspetto l'indagine lard si misura con i dati di due precedenti analoghe ricerche, la Doxa-Shell del '69 e l'Isvet del '70. Oggi, i giovani che si definiscono politicamente impegnati sono circa 3 su 100, come gli aderenti a partiti e sindacati. Nella generazione precedente i giovani "impegnati" erano circa il doppio (Shell 1969)e gli aderenti a un partito o a un sindacato almeno il triplo (Isvet 1970). Neppure nei cosiddetti "anni caldi" la partecipazione coinvolgeva più che una minoranza, anche se cospicua e attiva e influente (22 giovani su 100, secondo l'Isvet, e di questi però 16 solo saltuariamente), ma nel corso dei primi anni Ottanta questa quota è scesa ulteriormente, 27

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