26 DISCUSSIONE/BETTIN un riferimento ai film di Penn e Kasdan che hanno descritto l'evoluzione degli atteggiamenti e la maturazione di una significativa parte del mondo giovanile con più efficacia di tanti contributi sociologici. Introducendo il volume del Mulino che raccoglie i risultati dell'indagine promossa dall'associazione IARD, Francesco Alberoni denuncia proprio alcuni gravi difetti dell'analisi sociologica corrente. In particolare, secondo Alberoni, la sociologia piuttosto che spiegare le radici e la complessità della condizione giovanile nei paesi a capitalismo sviluppato, ha per lo più confezionato degli stereotipi e dei codici interpretativi entrati poi, attraverso la vulgata dei massmedia, nel sepso comune. L'equivoco maggiore, continua Alberoni, è consistito nell'indebita attribuzione dei comportamenti radicali e di rottura propri di limitate minoranze all'insieme dei giovani. Sarebbe stato, insomma, come se si fosse detto che tutti i giovani erano come Georgia o come si dicesse ora che tutti i trentacinquenni sono come i protagonisti del Grande freddo. Questa ricerca, a detta di Alberoni, apre una fase nuova negli studi sulla condizione giovanile, uscendo finalmente dai vecchi stereotipi e documentando le proprie conclusioni su ampia base (4.000 interviste su un questionario strutturato ad altrettanti giovani dai 15 ai 24 anni, individuati in modo da garantire la rappresentatività statistica dell'universo di riferimento. Il dato che subito colpisce, fra i tanti che fornisce l'indagine - condotta nell'autunno 1983 - è infatti lo scarso antagonismo espresso dai giovani intervistati nei confronti della società degli adulti, la loro manifesta estraneità alla politica e ad altre forme significative di impegno collettivo e pubblico. Sembra essersi compiuta, in questi giovani, non solo la fuoriuscita dagli stereotipi elaborati da una cattiva sociologia ma anche la fine di un'intera fase storica e sociale durata quasi due decenni. Nel corso di tale lunga stagione abbiamo assistito nelle società industriali contemporanee all'emergere di una condizione giovanile di massa inedita, sconosciuta alle altre epoche e alle altre società. I movimenti giovanili, sia politici sia incentrati su problematiche di tipo culturale o rivendicazioni più propriamente generazionali, si sono radicati nei conflitti prodotti da quella nuova condizione. Conflitti che investivano i singoli individui ma che avevano anche una valenza generale, attraversando l'intero corpo sociale. In questo senso, l'assimilazione tra le minoranze radicali e la massa dei giovani non era del tutto impropria. Ciò che veniva attivamente e pubblicamente espresso dai giovani più impegnati apparteneva davvero alla maggioranza di quella generazione. Che poi la tradizione politica di quelle tensioni non fosse corrispondente alle indicazioni più radicali, per esempio sul piano elettorale e istituzionale, è indubbio - come dimostra la storia della nuova sinistra - ma è un elemento che non contraddice il legame più intimo tra minoranze radicali e universo giovanile. Semmai, colloca l'influenza di quelle minoranze su un piano meno appariscente, più in profondità. Solo la cattiva sociologia, o il peggior giornalismo, e il senso comune plasmato da entrambi e coltivato da politici interessati, potevano dar corso a un'immagine caricaturale della condizione giovanile. Abbiamo visto succedersi nell' "immaginario collettivo" i capelloni, gli hippies, gli studenti contestatori, i maoisti, i gruppettari, gli studenti autonomi, i giovani terroristi, i fricchettoni, i drogati (ma anche, sia pure meno spesso, i travoltini, i fioruccini, i sanbabilini, i ciellini, i paninari) e così via a indicare, una stagione dopo l'altra, il "modello" di giovane prevalente. Naturalmente, si trattava di tipologie che ingrandivano a dismisura, deformandoli, alcuni dati reali, secondo un procedimento di tipo scandalistico-spettacolare in voga. Raramente invece è stata offerta un'immagine veritiera della condizione giovanile, e si peccherebbe d'omissione se si tacesse che alla deformazione della realtà hanno contribuito per la loro parte gli stessi movimenti nati dalla ribellione giovanile, con alcune evidenti forzature, stavolta in chiave mitica. Quindi, si può concordare con Alberoni che il ritratto di un giovane che rifiuta il lavoro, che rifiuta in toto il mondo e i valori degli adulti, che pratica la ribellione politica a oltranza e insegue un sogno di rivoluzione immediata non corrispondeva al vero. Tuttavia vien da chiedere allo stesso Alberoni se un modo come il suo di far sociologia - da qualche tempo descrittivo-filosofeggiante, più che analitico e a volte anzi decisamente sconfinante nell'opinionismo giornalistico - e la sua stessa teoria dei movimenti come "episodi" limitati e circoscritti non abbiano contribuito a creare quell'immagine distorta. Se il movimento è un episodio e se il modo di occuparsene prevalente non è quello di studiarne gli intrecci con il sociale, le radici, le tante storie da cui è percorso, bensì quello di commentarne le vicende in qualche battuta televisiva o nel breve spazio di un giornale o di un pamphlet, perché allora criticare chi si limita a coglierne solo la fase di stato nascente e a fissarla in un modellino? In fondo, i capelloni e il '68, i fricchettoni e il '77, il travoltismo e i paninari, sono tutti "episodi", anche se di pregnanza diversa. In realtà, ciò che non è finora stato colto con la necessaria attenzione è il legame tra tutti questi episodi, la vicenda collettiva che può ricomprenderli in una sintesi storica e sociale. Non sono mancati importanti tentativi in questo senso; e anche precoci, come Growing up in Absurd di Paul Goodman (tradotto da Einaudi come La gioventù assurda) pubblicato addirittura nel '56, in cui il disagio giovanile e gli "episodi" che provocava venivano affrontati in un approccio più globale, capace di rivelare i nessi tra condizione giovanile ed evoluzione del sistema sociale americano. Ancora nel '68, Kenneth Keniston ha ricostruito in Young Radicals (tradotto ancora da Einaudi col titolo Giovani all'opposizione) il processo di politicizzazione di un gruppo di giovani militanti della Nuova Sinistra americana dimostrando come il loro approdo a un impegno politico di tipo "radicale" sia stato determinato da una serie di fattori psicologici, storici e sociali. Più di recente, poi, l'impatto dei "nuovi valori" elaborati a partire dalla rivolta giovanile degli anni '60 sull'insieme della società americana è stato studiato da Ronald Inglehart in The Silent Revolution (del 1977, tradotto da Rizzoli nell'83, La rivoluzione silenziosa) con analogo, articolato approccio. Ma in definitiva queste ricerche non hanno fatto scuola, men che meno in Italia (dove; detto per inciso, neppure i cineasti hanno scherzato nelle rappresentazioni deformate, o più semplicemente idiote, del mondo giovanile. Almeno gli autori di Georgia e del Grande freddo dimostrano di aver letto i libri giusti). Anche in Italia, in verità, non sono mancate indagini ambiziose, di vasta scala (per esempio quella di Carlo Tullio-Altan pubblicata nel '74, I valori difficili, Bompiani, con la quale l'indagine IA~D si confronta, o più recentemente e limitata al caso torinese la ricerca di L. Sciolla e L. Ricolfi, Senza padri né maestri, De Donato, 1980 o l'ultima produzione del gruppo di ricerca coordinato da Alberto Melucci, Altri codici, Il Mulino 1984). Neppure sono mancati tentativi di sintesi o ricorrenti interventi di particolare acutezza• (per esempio Becéalli, DònolQ, Manconi, Moscati, Paci) ma non si è giunti mai a imporre nell'opinione corrente una lettura globale della condizione giovanile che, oltre che fondata su dati credibili, fosse anche efficace nel generalizzarli. Il lavoro di chi ha studiato con intelligenza e, sovente, con passione civile episodi e permanenze strutturali della questione giovanile nel no-
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