"FORZA" E "DEBOLEZZA" UGUAGLIANZA E DISUGUAGLIANZA Edoarda Masi Ho letto con una certa passione l'intervento di Filippo La Porta Su alcuni temi di Simone Weil e in Tolstoj, nel n. 5-6 di "Linea d'ombra", perché condivido quanto l'autore scrive nelle conclusioni a proposito dell'importanza di "credere in qualcosa" o dei "contenuti", contro la moda corrente; ma soprattutto perché tocca due temi - la forza e l'uguaglianza - che mi stanno a cuore, specie il secondo, in quel punto dove è difficile distinguere fra questioni teoriche ed esperienza personale. Non entrerò nel merito delle valutazioni su Tolstoj e Simone Weil, se non occasionalmente e per rilevare qualche forzatura: la dimensione dell'uno e la complessità dell'altra non consentono di parlarne alla leggera, senza uno studio e una riflessione almeno pari a quella in cui La Porta si è impegnato. E anche perché, da quello che egli scrive nelle conclusioni, dal tono di tutto l'articolo, dal fatto stesso di accostare due personalità così lontane, traspare un atteggiamento non neutrale, al di là dell'attenzione ai due autori e anzi entro questa un suo prender partito, la prol?osta pratica di un orientamento mentale. E di questa piega della mente che vorrei parlare. Verso di essa, e di una corrente più larga se pure indeterminata che la comprende, provo una reazione di consenso e di dissenso. Il consenso è per i fini, di non fanatismo e per così dire di benevolenza. Il dissenso riguarda la cecità sul significato, i motivi e le conseguenze di una serie di atteggiamenti. Credo che la cecità derivi dal programmatico ignorare le critiche rivolte a determinate ideologie dal filone del pensiero, borghese e socialista, che fa appello alla ragione cosciente e alla volontà. Mentre confutare quelle critiche sarebbe efficace, e coerente col principio di tolleranza implicito nel rifiuto della "forza", respingere pregiudizialmente fino a considerarle inesistenti le tesi di un pensiero avverso è già di per sé un atto di "forza". Uso la parola "forza" fra virgolette, perché è un termine che si presta all'equivoco. Il concetto di forza connesso alla "falsa idea di grandezza" si può associare approssimativamente all'esercizio della violenza, fisica e non, a opera e in funzione di un potere reale o presunto, o in obbedienza a esso. La precisazione è·necessaria, giacché forza è anche la f ortitudo, una delle quattro virtù cardinali, virtù che implica severità con se stessi, ben nota a Simone Weil e, a mio giudizio, assai meno a quanti oggi tendono a mescolare tolleranza, indulgenza e lassismo. C'è poi la forza delle idee, quella di un'opera d'arte, "la force de l'age". Anche senza toccare il limite estremo dell'equivoco, è facile confondere con la "forza" nell'accezione negativa tutta la sfera della politica. Con la conseguenza, per esempio, di assimilare Napoleone a Hitler. Personalmente ritengo scorretto anche assimilare Stalin a Hitler. Napoleone poi, per quanto poca simpatia si possa provare per il personaggio e al di là delle sue doti guerresche, non c'è dubbio che ha lasciato un segno durevole nella storia: basta pensare alla codificazione giuridica, al sistema amministrativo e scolastico durati in Francia oltre cento anni e che in varia misura si sono estesi in altri paesi d'Europa e anche in altre parti della terra, e ancora oggi sono alla base dei nostri ordinamenti. Non credo sia giusto dire che Goethe, Beethoven, Fichte, ecc. "cascarono" nel culto e nell'ammirazione di Napoleone. Il culto e l'ammirazione erano per quel che il simbolo di Napoleone rappresentava, non illusoriamente; e quando Beethoven ritirò la dedica della Terza sinfonia non fu contro le idee che quel simbolo rappresentava ma per lo scempio che Napoleone ne aveva fatto. Mi sembra che difficilmente una cosa simileavrebbe potuto accadere con Hitler. (Gli stessi - pochi -grandi "pentiti" del nazismo non restarono fedeli a quest'ultimo pur rinnegando Hitler, né lo avrebbero potuto.) Credo pure che l'ironia e il disprezzo con cui Tolstoj tratta Napoleone non si esprimano specificamente nell'episodio di Andrej ferito. "] ... ' in quel momento Napoleone gli pareva un essere così piccolo e insignificante a paragone di ciò che accadeva tra la sua anima e quell'alto cielo infinito ]... '": qui non conta tanto il giudizio sulla singola personalità quanto il sentimento della vanitas vanitatum e la rivelazione del senso della vita di fronte alla morte. L'estrema grandezza di Tolstoj sta anche nell'impossibilità di venir costretto nei limiti di una ideologia - fosse pure la sua stessa. Donde la distanza abissale fra Tolstoj e i tolstojani, già rivelata da Gor'kij. E il personaggio di Platon Karataev è il vero al di là della dubbia mitologia che su lui è cresciuta a posteriori e che fino a oggi si ritrova nella letteratura russa, in versioni deteriori. A un personaggio dissimile da Platon Karataev, quasi uno jurodivyj filosofeggiante, fa dire V. Grossman: "Accanto al grande bene così terribile, esiste la bontà umana nelDISCUSSIONE/MASI la vita di tutti i giorni. È la bontà di una vecchia che, per la strada, dà un pezzo di pane a un forzato che passa, è la bontà di un soldato che tende la sua borraccia a un nemico ferito, la bontà dei giovani che hanno pietà dei vecchi, la bontà di un contadino che nasconde nel granaio un vecchio ebreo ]siamo durante l'occupazione nazista'. È la bontà di quelle guardie carcerarie che, a rischio della propria libertà, trasmettono le lettere dei detenuti alle mogli e alle madri. Questa bontà privata di un individuo verso un altro è una bontà senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. Si potrebbe definirla bontà senza pensiero. La bontà degli uomini estranea al bene religioso o sociale''. La caratteristica di questa bontà è di esserepriva di motivazioni, gli stessi soggetti che compiono questi atti "buoni" non sanno spiegarne il motivo. La vecchia che ha curato il nazista ferito, lo stesso che poco prima ne aveva portato il marito alla morte e, con i compagni, aveva fatto baldoria nella sua capanna, "non poteva spiegare quello che aveva fatto". Ma un comportamento di cui non si sa render conto non ha niente a che fare con la bontà, non è né buono né cattivo. I comportamenti "cattivi" paralleli e speculari a quelli "buoni" di questo tipo sono altrettanto frequenti e non se ne differenziano. Provo tenerezza per il gatto e ripugnanza per il ragno: mi sembra disumano non nutrire il primo, e disumano non schiacciare il secondo. In questo il comportamento umano non è diverso da quello degli animali, è estraneo alla morale e al sentimento morale. Legato probabilmente a istinti primitivi, di conservazione della specie, di riconoscimento di amici e nemici della specie, in natura. E così via. Sembra perduta una ovvietà elementare, che bontà e cattiveria, bene e male, nascono quando si mangia il frutto dell'albero della conoscenza: quando si è in grado di motivare, soggettivamente, il perché delle nostre azioni. Chi vuol tagliare i rapporti fra intelletto, volontà e prassi deve coerentemente rinunciare alle categorie di bene e di male. Probabilmente La Porta è d'accordo con me, e ti chiedi perché mai abbia tirato in ballo Grossman. È perché sono convinta che certi presupposti conducano inevitabilmente a quelle conseguenze. Si possono rifiutare e combattere i valori etici di una società organizzata sotto il potere di una determinata classe dirigente solo a condizione di proporre una diversa etica, e quindi di prefigurare in qualche modo una diversa società, con un altro sistema di potere. Non si può farlo se non si contrappone nulla, salvo un rÌfiuto 23
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