Linea d'ombra - anno II - n. 7 - dicembre 1984

22 DISCUSSIONE/LA PORl'A Al termine della vita Rousseau, "deluso nel suo sogno di compagnia e di amore", come scrive Zweig, radicalizzerà il suo orgoglioso autoisolamento. Così nelle Réveries descrive la pace dell'esilio ali' Isie Saint Pierre: "La mente diveniva come un cristallo, svuotata di ogni immagine che la turbasse". Già, ogni immagine del mondo esterno, della realtà avrebbe turbato Jean-Jacques, che forse agli altri aveva sempre chiesto troppo per non rimanerne poi deluso. Per amare se stesso negli ultimi anni della sua vita non poteva più passare attraverso gli altri, ma doveva restare entro i saldi confini di una fantasticheria non turbata dall'esterno e sorretta da un sentimento di assoluta autosufficienza. Così un impercettibile velo di malinconia si stende su queste pagine: se non esiste nessuna innocenza originaria, irrelata, l'amore di sé non può essere un punto di partenza indiscusso, ma è qualcosa che va continuamente nutrito e verificato anche attraverso i "turbamenti" esterni. L'Eresia dell'amore di sé è stato ripubblicato in USA nel 1980 con una nuova prefazione in cui l'autore commenta le principali discussioni e polemiche che si sono avute intorno al narcisismo, tra le altre i libri di R. Sennet e di C. Lasch. Soprattutto quest'ultimo, molto noto anche in Italia, viene accusato da Zweig di fare del moralismo e di vedere ossessivamente nel cosiddetto narcisismo la causa del collasso sociale e morale di oggi. Nel nostro paese i contributi più importanti alla discussione su questo tema sono stati a nostro avviso un saggio di P. Giacché su "Ombre Rosse" n. 33 e una recensione di G. Jervis al libro di Lasch su "Quaderni piacentini" n. 3, entrambi apparsi nel 1981. In apparenza si tratta di due valutazioni di segno esattamente opposto: Giacché vede nell'attenzione narcisistica al proprio io sopratt'!tto assenza di comunicazione con gli altri e smania consumistica, mentre Jervis auspica una rivalutazione del narcisismo inteso però come investimento di sé, base necessaria a qualsiasi costruzione dell'identità. Dietro questa apparente diversità si può trovare però una identica ispirazione etica: la contrapposizione va imputata a una insufficiente chiarificazione terminologica, a una mancata distinzione tra i diversi significati del concetto di narcisismo (errore questo in cui cade spesso Zweig). Per capire le rispettive posizioni sarebbe utile calare il più possibile la discussione nella realtà sociale concreta in cui si vive, attraverso uno sforzo di osservazione e di esemplificazione. Per esempio: Jervis sostiene che le mille forme attuali di autogratificazione Uogging, cuffie stereo portatili, ecc.) non costituiscono un problema se non nella misura in cui possono implicare una dose di autodistruttività. E infatti il problema non è qui. Proviamo allora a partire da un altro punto, da un altro "segno" minimo della realtà, da uno dei tanti tic linguistici di questi anni. Si tratta di un'espressione abbastanza ricorrente nella comunicazione interpersonale: "È un problema tuo", detta in genere con tono deciso, sicuro di sé, di chi è ben intenzionato a far rispettare confini e distanze, e sa di averne tutto il diritto. Tralasciando il retroterra culturale di questa espressione (pensiamo a un certo uso comune della psicanalisi), cerchiamo di interpretare il messaggio che con essa si intende trasmettere all'interlocutore. Innanzitutto, affermando che è un problema tuo, dò per scontato che quindi non è mio (indipendentemente da quello che tu credi), che insomma a un certo livello tra i tuoi problemi e i miei non c'è alcun legame (e infatti: a un certo livello è proprio così...) Di conseguenza, non essendoci alcun legame, il problema tuo non mi interessa, non mi riguarda, anzi mi disturba, mi invade, dunque risolvitelo da te. Il fatto è che a un certo livello è assolutamente vero che non esiste alcun legame tra i problemi miei e quelli di un altro: se infatti scelgo di non farmi "disturbare" o "scuotere" da niente e da nessuno (una richiesta qualsiasi - di amicizia, di aiuto - un'occasione di solidarietà, una possibilità di innamoramento, ecc.), allora i problemi miei quand'anche avessero dei punti di contatto con quelli di un altro, restano comunque problemi miei, che intendo affrontare e risolvere da solo. L'esempio fatto, limitato ma indicatore di una sensibilità diffusa, può servire per chiarire le due opposte accezioni del termine "narcisismo". Da una parte la frase che abbiamo citato può essere riferita a un tipico "narcisista" (nel senso di Lasch), cioè a un individuo che non vuole dipendere emotivamente da nessuno, che non intende fare grossi investimenti affettivi, che si preoccupa della pura autoconservazione, ecc., dall'altra rivela un amore di sé così fragile, così vulnerabile, che non sopporta di essere "invaso" dai problemi degli altri, minacciosi per i propri precari equilibri. Insomma possiamo qui osservare una coincidenza di eccesso di narcisismo (inteso negativamente come chiusura in sé) e carenza di narcisismo (inteso positivamente come amore e stima di sé). A proposito dell'autostima, che è un elemento importante di ogni amore di sé, bisogna ricordare che non si tratta di una questione legata soltanto al rapporto con se stessi. Non è possibile isolarla in quanto problema psicologico o culturale. Dipende invece f da molti fattori, dall'organizzazione della società, dalla divisione del lavoro, dalle chances di vita effettivamente concesse all'individuo. Non tutti hanno le stesse possibilità di stimarsi e dunque di amarsi. Una verità questa fin troppo ovvia, ma che non è nemmeno implicata nella lunga trattazione di Zweig. Una scarsa consapevolezza di queste implicazioni generali condiziona, tra l'altro, quei movimenti di carattere religioso o parareligioso che vorrebbero opporsi alla "cultura del narcisismo" (pensiamo a Comunione e Liberazione): l'amore di sé ha qui bisogno di stimolanti artificiali, e così si finisce spesso con l'amarsi solo in quanto ci si sente polemicamente diversi da coloro che non appartengono al proprio movimento. Nelle conclusioni del libro di Zweig si avverte un'incertezza dell'autore, una sua consapevolezza del carattere problematico, antinomico di quel "narcisismo" che ha voluto contrapporre "all'amplesso ampio e moralistico della società". Oggi l'isolamento volontario, l'autoestraniamento, seppure giustificati, rischiano di diventare impoverimento e basta. L'io nel quale ci si voleva ritirare è ormai qualcosa di sfuggente e di proteico, di incomunicabile e di inconoscibile, anche a se stessi; è soprattutto diventato qualcosa di così intimamente fragile, che occorre difendere da tutto, non solo dall'"amplesso della società", ma da qualsiasi emozione, dall'esperienza stessa. La scelta, che può sembrare estremistica, di far diventare il proprio fallimento e disadattamento sociale una sorta di principio, una scelta morale di non integrazione, può rivelarsi sterile: per non morire molti hanno imparato a "fare il morto", ma questo non appare una gran vittoria. Il libro di Zweig, pur lamentando la attuale assenza di comunità, di società (ovvero di "uno scambio significativo di emozioni, di talenti, di ambizioni") si chiude con una visione ottimistica, conciliativa: anche se sottolinea il "dolore" di Narciso l'autore dichiara una fiducia,nella capacità dell'individuo di "ridefinire i modi di stare insieme e quelli di stare soli''. Forse però questa implicita contrapposizione, oltre a costituire il maggiore limite del libro, rende assai problematica una conciliazione. Per stare insieme agli altri occorre saper stare soli con se stessi, il che a sua volta presuppone una dose di amore di sé che soltanto attraverso gli·altri possiamo raggiungere. Il problema è, come dicevamo all'inizio, in che modo ci si ama e cosa si ama di sé: amarsi sia come particolarità, come unicità (in un senso diverso da quello del "vanitoso" di Saint-Exupéry), sia come generalità (amare in sé'anche la precarietà, la mortalità, che è comune a tutte ·1e· creature).

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